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venerdì 26 aprile 2013

La prima "codificazione". La Stele di Hammurabi

Bassorilievo sulla Stele: Hammurabi riceve le leggi dal dio del Sole


Nel 1902 a Susa (Iran) l'importantissimo ritrovamento: dopo secoli e secoli, sepolta dalla sabbia e dal tempo, tornava alla luce la Stele di Hammurabi.
Un blocco di basalto nero alto più di due metri, inciso da una miriade di caratteri cuneiformi disposti su 49 colonne e ben 3.600 righe, raccoglie 282 leggi: le più antiche mai messe per iscritto. Sono le norme che reggevano una civiltà fiorente ed evoluta, Babilonia. Quando vennero incise, Hammurabi regnava da più di un decennio su un vasto territorio, che si estendeva dal Golfo Persico fin quasi le coste del Mar Mediterraneo, attraverso tutta la Mesopotamia: correva l'anno 1780 a.C.


Sulla sommità della Stele siede sul trono Shamash, dio del Sole e della giustizia. Porge ad un uomo i segni del potere, il bastone e l'anello: esile al suo cospetto, il re Hammurabi solleva una mano in segno di saluto, e si appresta a ricevere le leggi del suo popolo. Al di sotto, caratteri cuneiformi incisi sul basalto ci tramandano attraverso i millenni gesta ed onorificenze del re babilonese (narrate in prima persona), nonchè il diritto su cui poggiavano le genti della Mesopotamia.

Per molto tempo storici e critici sono stati d'accordo nel ritenere che quella della Stele fosse una raccolta di leggi in senso proprio, ossia una collezione di norme generali ed astratte all'interno di una forma sia pure primitiva di codificazione. Gli studiosi, oggi, hanno qualche dubbio al riguardo.
In epoca così remota, per i babilonesi come per gli altri popoli, il diritto era tramandato oralmente di generazione in generazione: insieme alla religione ed alle consuetudini formava l'identità culturale di una popolazione. Pertanto quella di Hammurabi più che un'opera di codificazione (intesa come raccolta della totalità delle leggi vigenti), fu sicuramente un intelligente atto di propaganda politica e di celebrazione dei suoi grandi successi, non solo militari. Difficilmente infatti le norme incise sulla Stele potevano essere applicate in via generale: sono più che altro delle soluzioni casistiche, elaborate in circostanze concrete. Come risulta da documenti della stessa età, sono sentenze dello stesso re, raccolte tutte insieme, come esempio di "buon governo" per i suoi successori. Un diritto a base casistica dunque: tipico delle popolazioni antiche, esattamente come fu anche per Roma. A differenza però dei codici primitivi, fra cui le XII Tavole (incise nel 451 - 450 a.C., oltre 1300 anni dopo la Stele!), quello di Hammurabi non è un codice processuale. Non contiene cioè norme sullo svolgimento del processo, ma solo norme civili e penali. Altro elemento caratteristico è l'assenza assoluta di precetti di diretta derivazione divina - religiosa. Poi sicuramente l'aspetto maggiormente noto a tutti, ossia l'ampio ricorso alla legge del taglione.

Le 282 leggi fanno luce sul mondo di una civiltà splendente, forte, sicuramente evoluta rispetto agli standard dell'epoca. Parliamo di quasi 4.000 anni fa, eppure la tecnica giuridica con cui quelle norme sono redatte è sicuramente affinata. La struttura è sempre la stessa: ciascun articolo si apre con la protasi (il fatto) e si chiude con l'apodosi (la sanzione).
 Un esempio: 




218.: "Se un medico cura alcuno di una grave ferita colla lancetta di bronzo [bisturi] e lo uccide, o gli apre una piaga colla lancetta di bronzo e l'occhio è perduto, gli si dovranno mozzare le mani."

Un articolo sulla responsabilità del medico, peraltro argomento ancora di stretta attualità.
Il pensiero legislativo è espresso con rigore e si ripete costante: proposizione ipotetica, proposizione imperativa.
Delitto e castigo.
Ancora:

 1.: "Se un uomo accusa un altro uomo di omicidio senza fornirne le prove, l'accusatore sarà condannato a morte." 

Come accade anche oggi, per poter ottenere una sentenza di condanna dell'imputato occorre portare dinanzi al giudice le prove necessarie. Lo Stato si preoccupa di punire direttamente il colpevole per evitare vendette private, ma è certo che qui la sanzione sia particolarmente dura: alla faccia dell'onere della prova!


Grande valore storico - culturale, reperto importante per aprire una finestra su un'epoca remota ed affascinante, ma non solo. La Stele di Hammurabi può anche essere foriera di riflessioni utili per il presente. Mi riferisco all'articolo numero 5, riguardante le prevaricazioni di un giudice. Quello della responsabilità civile del magistrato è un annoso problema che affligge il nostro ordinamento: l'attuale disciplina risalente al 1988 è sempre stata criticata, tanto che attualmente si sta discutendo in Parlamento perchè venga riformata. E'una disciplina compromissoria, sicuramente troppo attenta a bilanciare le esigenze contrapposte della preservazione della tranquillità del giudice e dell'assoggettamento dei magistrati ad un certo grado di responsabilità per le azioni che compiono nel loro operato: nei tre casi in cui il giudice agisca con dolo, colpa grave, ovvero qualora la sua attività comporti un prolungato diniego di giustizia, il cittadino avrà diritto all'azione risarcitoria aquiliana. Ma non nei confronti del giudice, bensì dello Stato, che in una prima fase dovrà risarcire direttamente il danneggiato, naturalmente in caso di condanna. In una successiva ed eventuale seconda fase lo Stato potrà rivalersi nei confronti del giudice, ma non per l'intero, bensì solamente per una cifra non superiore ad un terzo dello stipendio annuale netto dello stesso (salvo il caso del dolo, in cui non vi sono limiti al regresso). Non un eccellente dissuasivo, tanto che si parla di pena pecuniaria piuttosto che di responsabilità civile del magistrato. Ma cosa c'entra con tutto questo il diritto babilonese?
C'entra eccome, in quanto Hammurabi 4.000 anni fa poteva vantare un deterrente sicuramente migliore di quello di cui disponiamo oggi:  
5.: "Se un giudice conduce un processo ed emette una decisione e redige per iscritto la sentenza, se più tardi il suo processo si dimostra errato e quel giudice nel processo che egli ha condotto è convinto di essere ragione dell'errore, egli allora dovrà pagare dodici volte la pena che in quel processo era stabilita, e si dovrà pubblicamente cacciarlo dal suo seggio di giudice, nè dovrà egli tornarvi per sedere di nuovo come giudice in un processo."

Il diritto della Stele, quindi, ci offre alcuni spunti su cui concentrarsi per una riforma coerente ed efficace sulla responsabilità civile del magistrato. Innanzi tutto, la rimozione dall'incarico per un giudice incompetente o corrotto. In secondo luogo un processo diretto, in quanto oggi come oggi il cittadino non può citare direttamente il giudice, ma muovere causa solamente allo Stato. Terzo, la condanna: commisurata non alla retribuzione, bensì alla pena inflitta (e quindi al danno cagionato) nel processo viziato.

sabato 20 aprile 2013

Sparta: le origini del mito e la Costituzione


L'odierna città di Sparta sorge immediatamente a sud dell'antica polis, rasa al suolo dai goti nel IV secolo, quando l'impero romano d'occidente cadeva ormai a pezzi. Rifondata nella prima metà del 1800, è un insediamento piuttosto anonimo, che di per sè non lascia intendere  l'orgoglio e l'autorità dei tempi passati. Niente di nuovo in realtà, lo storico Tucidide scriveva infatti nel V secolo a.C.: "se oggi la città dei Lacedemoni venisse abbandonata e rimanessero solo i templi e le fondazioni degli edifici, i posteri difficilmente potrebbero credere alla potenza e alla fama di Sparta."
Siamo nella parte sud - orientale del Peloponneso: nella regione della Laconia, dove il fiume Eurota scorre tranquillo, oggi come 3.000 anni fa. Forma un altopiano fertile ricco di ulivi, circondato da due catene montuose, il Taigeto ed il Parnone, in una vera e propria fortezza naturale. Ciò spiega in parte il successo della polis, come anche il carattere dello spartano: chiuso, testardo, misterioso a qualunque straniero tenti di avvicinarlo. 


"...lo stesso Zeus ha dato questa città agli Eraclidi, coi quali lasciammo il ventoso Erineo e giungemmo nel vasto Peloponneso."
                                                                                   Tirteo. 

La fondazione della città di Sparta da parte di tribù di stirpe dorica è circostanza di difficile collocazione temporale, databile fra il 1050 e l'800 a.C.
In realtà abbiamo attestazioni remote dell'esistenza della città: nell' Iliade (poema che narra eventi risalenti al XIII secolo a.C.) Omero parla di "Lacedemone dalle valli profonde", retta dal re Menelao e dalla regina Elena, il cui rapimento diede il via alla guerra di Troia. Sta di fatto che l'avvento dei dori in Laconia da nord portò la fondazione della polis attraverso la riunione di quattro villaggi: Limne e Cinosura prima, Mesoa e Pitane poi (Sparta viene dal greco Σπάρτη, disseminata). Questo attraverso la sottomissione della popolazione indigena, ridotta alla condizione di iloti, schiavi di proprietà dello Stato. Non ci aiutano fonti certe su questo periodo, nel pieno del Medioevo ellenico infatti l'assenza della scrittura portò alla trasmissione orale di questi eventi, che oggi appaiono immersi nella leggenda. Così i dori non sarebbero brutali conquistatori: essi, discendenti di Eracle, avrebbero semplicemente fatto valere i loro diritti tornando nelle terre che Zeus aveva loro concesse. Ecco pronta la giustificazione per quella che dovette essere una sanguinosa conquista, che contribuì alla fine della civiltà palaziale.
L'origine divina è una costante a Sparta: giustificò non solo la sua fondazione, ma anche il suo ordinamento e le sue istituzioni. Fu quella forza che consentì ai suoi cittadini di accettare una forma di governo che controllava totalmente le loro vite, dalla nascita fin oltre la morte; portò gli spartani a pensare e vivere non come individui, bensì come parte indispensabile di uno stato cui prestavano cieca obbedienza e massima dedizione. La celebre battaglia delle Termopili non è l'unico esempio.
Ma quali sono le caratteristiche dell'ordinamento di Sparta? C'è grande curosità intorno a questo interrogativo, soprattutto per l'aspetto che caratterizzava maggiormente lo stato spartano: la sua propensione pressocchè totale alla guerra. Gli spartani ambivano a dominare la Grecia, la ritenevano territorio di proprio competenza.
C'è da dire però che tale propensione bellica non fu frutto di una presa di posizione aprioristica, bensì il risultato degli eventi che segnarono la fondazione della città ed i suoi primi sviluppi. Dopo la "ilotizzazione" della Laconia infatti, fondamentali per lo sviluppo di Sparta furono le guerre messeniche, intraprese per l'annessione dei territori della Messenia. La prima fu vinta nell'VIII secolo e comportò la conquista della regione e la riduzione in schiavitù della popolazione. Ma i messeni non furono mai domati completamente: ogni volta che se ne presentava l'occasione, quando per guerre o calamità naturali Sparta sembrava essersi indebolita, si ribellavano ferocemente. 
Sparta viveva sempre con il terrore che gli iloti potessero insorgere in massa e, dato che il loro numero sovrastava quello dei cittadini di pieno diritto, gli spartiati, ben si comprende la formazione di un ordinamento il cui scopo primario era quello di crescere e costruire la più forte fanteria della Grecia. Basti pensare che durante la guerra del peloponneso gli spartiati erano circa 8.000 (ed è il massimo numero di guerrieri - cittadini di pieno diritto che Sparta ebbe mai), mentre gli iloti erano ben 350.000.
L'ordinamento quindi fu frutto di una lenta evoluzione storica, anche se la leggenda ci dice qualcosa di diverso: attribuisce al mitico legislatore Licurgo la creazione delle leggi fondamentali della polis.


"Un giorno riflettevo su come Sparta, una delle città meno popolose, sia divenuta una delle più potenti e celebri città della Grecia e mi meravigliavo di tutto ciò.
Poi pensai alle istituzioni degli spartiati e finii di stupirmi."


                                                                                                          Senofonte.


La storia del legislatore Licurgo racconta di un uomo che viaggiò, e tanto, durante la sua vita. Visitò molte città, conobbe mondi diversi fra loro, comprese ciò che era buono per la crescita di una polis e ciò che invece poteva essere dannoso. Non a caso l'opera di creazione dell'ordinamento politico e sociale di Sparta che gli viene attribuita è nota come eunomia, ossia "buon governo". Le regole da lui poste a Sparta sono il frutto di un responso dell'oracolo di Delfi (la rhetra): secondo la tradizione sono stati gli dèi stessi a regolare le fondamenta dello stato lacedemone, ed a questo si deve il forte conservatorismo che lo caratterizzò sempre. Se quelle regole erano state poste dagli dèi, come potevano mai essere sovvertite? Di certo non lo avrebbero fatto i religiosissimi spartani.
Prodotto dell'eunomia fu anzitutto una società rigidamente suddivisa in classi. Al livello più basso vi erano gli iloti, schiavi pubblici (non appartenevano a questo o quel cittadino, bensì solo allo stato) obbligati a coltivare gli appezzamenti di terra attribuiti in egual misura a ciascun cittadino, per garantirne l'indipendenza economica. Anche i terreni erano di proprietà pubblica, erano infatti inalienabili.
Vi erano poi i perieci, sostanzialmente abitanti delle comunità attorno Sparta: vivevano in stretta connessione con lo stato lacedemone, pur non essendone parte integrante. Non godevano infatti dei diritti politici, ma a differenza dei cittadini potevano svolgere attività produttive: si dedicavano così all'agricoltura, al commercio, etc. Erano chiamati a supportare la falange oplitica in battaglia, dovevano subire ingerenze nella propria giurisdizione, pagare tributi. Tra queste comunità e Sparta intercorreva un rapporto simile a quello che legava Roma ai socii italici.
Cittadini pleno iure, nonchè componenti della leggendaria falange spartana, erano gli spartiati. Appena nati, la loro idoneità fisica era valutata dai membri più anziani della collettività: deboli e storpi venivano esposti sul Taigeto. Sottoposti fin dalla tenera età a rigidi addestramenti e prove fisiche, potevano esercitare i diritti politici dal compimento dei 30 anni. Ma la loro vita in comunità iniziava ben prima, quando cioè all'età di sette anni venivano sottratti alle loro famiglie e assegnati a istituti pubblici, per essere educati alla vita sociale, politica e militare della polis. La loro educazione era chiamata agoghè: il risultato era il perfetto cittadino - oplita. Gli spartiati non potevano svolgere nessuna attività produttiva: i loro poderi erano coltivati dagli schiavi, pertanto avevano tutto il tempo a disposizione per partecipare alla vita politica e addestrarsi alla guerra (ma d'altronde, che senso aveva attaccarsi al potere materiale ed alla ricchezza, in una città in cui moneta corrente erano lunghi spiedi di ferro?). La loro vita li vedeva raramente passare il tempo a casa con la famiglia. Da qui anche il ruolo fondamentale che svolgeva a Sparta la donna, cui era affidata la non facile gestione degli affari domestici: molto considerata ed indipendente come in nessun altra polis, nemmeno nella democratica Atene. I loro mariti, quando non erano chiamati lontano da casa per sostenere campagne militari, dovevano comunque dedicarsi alla vita politica della città, che non lasciava quasi mai tempo libero: erano però orgogliosi della loro posizione esclusiva e paritaria, si facevano chiamare gli "eguali". Punto importante della vita in comunità erano i sissizi, pasti comuni, ai quali ogni cittadino doveva contribuire fornendo determinate quantità dei prodotti dei suoi terreni: per coloro che non riuscivano a pagare queste quote obbligatorie pena era il declassamento nella categoria degli hypomenies, gli "inferiori", privi di diritti politici.
I motaci invece, erano figli di cittadini e iloti e come tali privi di diritti politici, ma educati al pari degli spartiati. 

Per quanto riguarda l'ordinamento politico, anche a Sparta erano presenti organi tipici delle poleis greche: tutte erano infatti caratterizzate da un'assemblea popolare, un consiglio di nobili o anziani, e da una magistratura dalle competenze specifiche. Era il prevalere di uno di questi elementi che rendeva una città democratica piuttosto che aristorcatica, o magari tirannica. A Sparta i diversi elementi si combinavano formando un perfetto equilibrio: sicchè non possiamo parlare nè di monarchia, nè di oligarchia, nè di democrazia.
La città disponeva di due re, ai quali erano affidati compiti militari e religiosi: erano i generali dell'esercito spartano e conducevano le operazioni militari. Inoltre rappresentavano la comunità davanti agli dèi: avevano quindi specifiche responsabilità legate al culto di dèi ed eroi. La diarchia sembra essere un retaggio dell'organizzazione tribale dei dori.
Gli spartiati, compiuti i 30 anni, esercitavano i loro compiti politici (ed i loro diritti) nell'assemblea popolare, l'apella, che eleggeva i membri del consiglio degli anziani: particolarità tutta lacedemone era la modalità di votazione, non per numero bensì per acclamazione. L'assemblea non aveva poteri di iniziativa politica, nè di discussione delle istanze che le venivano proposte: poteva semplicemente approvare o respingere, similmente a quanto accadeva a Roma con i comizi centuriati.
Gli spartiati particolarmente meritevoli , raggiunti i 60 anni di età, potevano essere eletti quali membri del consiglio degli anziani, la gerusia. Questo consiglio aveva una competenza politica e penale: infatti stabiliva quali proposte di legge andassero presentate in assemblea, ed aveva prerogative giurisdizionali per quanto riguarda i giudizi capitali.
Tutti questi organi erano già conosciuti dalla rhetra delfica, il responso oracolare su cui basò la propria eunomia Licurgo, dunque fondavano la loro legittimità direttamente sul volere delgi dèi; ma in seguito un ulteriore organo venne istituito. Gli efori, eletti in numero di cinque dall'assemblea popolare, dal VI secolo a.C. svolsero a Sparta compiti che possiamo accostare a quelli delle odierne Corti di legittimità: erano infatti i garanti delle leggi fondamentali dell'ordinamento. Lungo l'annuale durata del loro incarico custodivano la costituzione, il nucleo divino dell'ordinamento spartano. I loro poteri molto spesso li portarono in contrasto con i re: questi spesso cercavano di arrogarsi poteri eccedenti le loro possibilità. Un contrasto fra poteri dello stato che si ripropone anche nelle democrazie dei giorni presenti.

Scudo spartano: lambda rossa in campo bronzo
Questa struttura politico - sociale fu elogiata e ammirata da molti intellettuali e politici. Uno su tutti il filosofo Platone: egli apprezzava in particolar modo la Costituzione degli spartani, per il fatto che le leggi fondamentali venissero sempre rispettate e mai messe in discussione. Questo naturalmente per la loro origine divina, che è causa del forte conservatorismo che regnava nella polis. Questa rigidità fu non solo un tratto caratterizzante, ma anche la forza di Sparta: è la materia con cui venne forgiata la più forte falange oplitica di tutta la Grecia, le cui imprese vennero presto mitizzate. Spesso era sufficiente la vista della lambda (Λ) rossa sul bronzo degli scudi dei lacedemoni per determinare gli avversari alla fuga. Molti scontri campali vennero vinti non dagli spartani, ma dalla fama che si erano costruiti nel tempo! 
Ma la rigidità fu anche la debolezza di Sparta. L'incapacità di adattarsi alle nuove esigenze, sorte nel momento in cui il trionfo nella guerra del Peloponneso le consegnò l'egemonia sull'Ellade, la portò presto al declino. Anzi, ad un crollo rovinoso, sotto i colpi dei tebani guidati dal generale Epaminonda. A Leuttra, nel 371 a.C., subì una sconfitta tremenda, dalla quale non si rialzò mai più.

sabato 13 aprile 2013

L'Arte del Caravaggio: La "Vocazione di san Matteo"

Michelangelo Merisi da Caravaggio, "La Vocazione di san Matteo", 1599-1600
 1573 - 1610:
Caravaggio nacque e visse nel periodo della Controriforma. 
Anni in cui la Chiesa cattolica reagiva alla riforma protestante, ne combatteva la spinta centrifuga: ciò avvenne in particolare attraverso nuovi impulsi nel campo artistico. Molte chiese vennero restaurate, dal pontificato di Sisto V Roma fu addirittura trasformata urbanisticamente ad maiorem Dei et Ecclesiae gloriam. Notevole fu l'incremento della committenza soprattutto nelle arti figurative. Per un artista, a maggior ragione in questi anni, Roma era la meta più ambita. 
Caravaggio giunse nell'Urbe nel 1593, persi tragicamente il padre ed il nonno in tenera età e la madre a 19 anni, dopo un breve periodo di apprendistato a Milano presso la bottega del pittore manierista Peterzano. Si fece conoscere presto: nel 1595 il cardinale Francesco Maria del Monte, innamoratosi del suo talento, divenne il suo primo protettore.
Entrò in contatto con le famiglie aristocratiche romane, per le quali iniziò a dipingere. Il primo incarico pubblico gli venne commissionato proprio grazie al cardinal Del Monte: tre tele per la cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi. Fu così che iniziò a lavorare sulla "Vocazione di san Matteo".


Arrivato a Roma, come detto, nel 1593, il giovane Caravaggio entrò in contatto con diversi pittori locali, che subito cercarono di istruirlo su quanto un giovane pittore dovesse fare per poter arrivare lontano. Innanzi tutto rimanere umile, sempre pronto ad apprendere; in secondo luogo disegnare sculture, che Roma offriva in abbondanza; infine concentrarsi sullo studio dei maestri, cercando di seguire i loro passi. Completato tale percorso, un artista poteva giovarsi di un bagaglio tecnico completo, dominava un talento plasmato secondo l'esempio dei grandi del passato: era pronto per mettere al servizio della Chiesa cattolica la propria visione del paradiso, per vincere la "guerra delle anime" contro il Protestantesimo.
Niente di più lontano dalle ambizioni del Caravaggio. Disegnare? Un evento raro nella sua pratica artistica. Essere umili? Non ne parliamo. 
Visione del paradiso? Impossibile, l'uomo non può conoscere ciò di cui non ha esperienza. L'artista può conoscere il mondo, tutto ciò che può osservare e percepire con i sensi. Solo la realtà può essere riportata sulla tela: non c'è spazio per la ricerca del bello ideale, tantomeno per l'invenzione. Esiste solo lo stato dei fatti, l'hic et nunc. Scrive con straordinaria efficacia l'Argan che per il Caravaggio l'arte non è attività intellettiva, ma morale: non consiste nel distaccarsi dalla realtà e rappresentarla, ma nell'immergersi nella realtà e viverla.

E'quanto emerge chiaramente dalla Vocazione. L'artista non rappresenta una scena ideale, ma riesce a trovare il sacro nella vita dei miserabili, prende il divino e lo trascina in una scena quotidiana. La rappresenta nuda e cruda. Così Gesù appare nell'angusta penombra di un'osteria romana. Seguire l'esempio dei maestri? Cose da manieristi. Lui era andato oltre, aveva trovato la sua strada. La Vocazione di san Matteo in un certo senso rappresenta anche la vocazione dell'artista: è infatti la prima tela in cui dipinge attraverso forti, drammatici contrasti luci - ombre. Quella pittura dai toni vivaci che aveva accompagnato la sua giovinezza apparteneva ormai al passato.
Insieme al Cristo entra in scena un lampo di luce divina che illumina la scena: il gesto perentorio della mano viene timidamente ripetuto dall'apostolo Pietro. Tutti sono sorpresi e si voltano verso la fonte di luce, tranne gli avari che contano i denari. Matteo è incredulo: 
tu. -chi, io? -tu.
Non si scappa. La chiamata di Dio arriva quando meno te l'aspetti. Può soprendere l'uomo in qualsiasi momento, persino nel peccato. I protagonisti indossano abiti moderni: non si tratta semplicemente di un antico racconto, ma di un evento che continua a succedere oggi, che potrebbe accadere domani. A chiunque.
La lama di luce che entra nella stanza è allo stesso tempo reale ed ideale: investe le figure, rappresenta la grazia. Lasciando la figura del Cristo nella penombra, l'artista non fa altro che porre in risalto il gesto della mano.

Ma potrebbe esserci qualcosa di più. Quel lampo potrebbe conservare il 'manifesto pittorico' del Caravaggio, il ruolo che affidava alla sua arte. Quella luce potrebbe rappresentare l'artista stesso: indaga, investe le figure dando un volto a personaggi altrimenti ignoti, scopre il peccato e lo denuda, crudelmente, su una tela. Quella luce è il Caravaggio. Lui che è entrato in sporche botteghe ed ha frequentato locande malfamate; lui che è stato fra gli ignobili ed i miserabili; lui che ha visto e sentito, che ha potuto toccare con mano la depravazione. L'artista non inventa ma rappresenta ciò che ha vissuto: la grandezza del Caravaggio sta nell'aver preso quali soggetti della sua arte persone comuni, gli umili, nell'aver raffigurato il loro mondo e la loro vita.
Così nella Vocazione non è rappresentato solo il peccato, ma anche il preciso istante in cui l'uomo (l'umanità tutta!) può riscattarsi, ricevendo la scintilla divina della redenzione.

lunedì 8 aprile 2013

Un uomo che affronta il Sublime: il "Viandante sul mare di nebbia"

Caspar David Friedrich, "Viandante sul mare di nebbia", 1818

           


        "Così tra questa 

immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare."
                   
                           (G.Leopardi, 'L'Infinito', 1819)
  
Quando Leopardi si abbandonava all'infinito, cercando un "dolce naufragio" che lo sollevasse dai drammi dell'esistenza, il capolavoro del Friedrich vedeva la luce ormai da un anno.
Il poeta di Recanati non aveva raggiunto il punto d'approdo del suo pensiero. Non ancora.
Per lungo tempo, raggiungendo vette altissime con la sua poesia, si sarebbe dedicato ad una faticosa ricerca della trascendenza, del divino. Arrivando più di una volta a sfiorare la mano protesa della Fiducia, ma ritraendosi sempre all'ultimo istante: dopo aver navigato per anni nel mare del pessimismo cosmico, avrebbe gettato l'ancora nel porto del nichilismo.

La figura del Viandante ci racconta una storia totalmente diversa. Friedrich è un artista romantico, ma la sua opera è permeata da una forte religiosità, trasmessagli dalla  famiglia. I suoi quadri sono delle visioni, in cui la natura non è rappresentata in maniera realistica, bensì indagata nella sua azione sull'individuo; contrapposta nella sua infinità, alla finitezza dell'essere umano. Ma proprio quando il terrore, l'impotenza, l'esperienza del Sublime sta per travolgere l'uomo, si accende una speranza: attraverso la Natura, sia pure non comprensibile nella sua totalità, possiamo scorgere il sentiero che conduce a Dio.
Nel 1818 l'artista era nel pieno delle sue forze, ancora non si intravedevano i segni della malattia che lo avrebbe
gradualmente portato alla morte, nel 1840.




Anche al di fuori dell'opera di Friedrich, la figura del Viandante ci affascina smisuratamente: colui che parte per un lungo viaggio contando solo sulle proprio forze. Cerca la conoscenza, la verità o forse anche se stesso: ad ogni modo, siamo portati ad immaginare questo viaggio come ricco di avventure. Ci affascina perchè noi stessi, come lui, siamo in cammino e alla ricerca di qualcosa nella nostra vita.

Il "Viandante sul mare di nebbia" è rappresentato di spalle. Una tecnica innovativa, che simboleggia l'inconscio: l'artista vuol farci capire che si è abbandonato ai propri sentimenti, accantonando la ragione. Solo facendosi guidare dall'irrazionale l'uomo può avvicinarsi alla Natura, quindi a Dio: per potersi specchiare nell'Infinito, deve riconoscere che certi concetti vadano al di là della portata dell'intelletto, accettarne la manifestazione senza voler indagare oltre. Alcune verità sono celate: da un mare di nebbia...
Quest'uomo si erge, solitario, sulla cima di un dirupo. Ammira uno scenario maestoso ed incomprensibile, rispetto al quale però rimane estraneo. C'è solo il vento a scuotergli i capelli: in un solo momento, è tanto lontano dalla Natura quanto dal resto dell'umanità.
Per questo il Viandante è un eroe. E' l'eroe romantico, la sua tragedia si consuma in questa profonda solitudine. Ed allo stesso tempo egli è l'immagine dell'artista, lontano dalla società e consapevole della sua diversità. Ne è fiero. Il suo genio lo ha condotto davanti all'avventura del sovrannaturale: non si tira indietro, non china il capo ma la affronta a viso aperto, pur consapevole dei propri limiti.
A questo punto ogni uomo o eroe avrebbe ceduto: non si può resistere al Sublime, questa esperienza non può non lasciare tracce. Così non è in questo caso, perchè il Viandante ha un'enorme forza dentro di sè a sostenerlo, ha delle certezze che molti uomini non hanno:
egli ha fede in Dio. Difatti, la nebbia non ha celato ogni cosa ai suoi occhi: degli speroni rocciosi si sollevano dalle ombre. Questi non rappresentano altro che le verità della religione cristiana, luci che non tramontano mai nella vita del credente: ed è per questo che, a differenza del Leopardi, Friedrich non conosce il naufragio.
A testa alta quindi, lo sguardo del Viandante riesce a superare le incertezze del mondo mortale, rappresentate nel primo piano dal frastagliato mare di nebbia, per giungere fino al lontano orizzonte: il paesaggio placido e sterminato dello sfondo, nell'immaginario dell'artista, rappresenta la riunione con Dio, al termine di una vita piena di insidie e di difficoltà che mettono alla prova la fede del credente.



Il dipinto è considerato come un vero e proprio manifesto del Romanticismo,  ma interpretato in maniere contrastanti dalla critica. Alcuni ritengono il suo messaggio contraddittorio: lascerebbe intendere il dominio dell'individuo sul paesaggio, ma allo stesso tempo la sua irrilevanza nella rappresentazione. Quest'apparente incoerenza potrebbe essere risolta ricordando che l'autore, prima ancora di essere romantico, è credente: ed è appunto rileggendo l'opera in chiave religiosa che si è cercato di rispondere all'enigma del Viandante.


martedì 2 aprile 2013

Un luogo fuori dallo spazio e dal tempo. L'ipnotica visione de "L'Isola dei morti"

Arnold Böcklin, "L'Isola dei morti" (prima versione)
"[...] ho terminato L'isola tombale. Lei vi si immergerà sognando, in questo oscuro mondo di ombre, fino a credere di aver sentito il soffio lieve che increspa la superficie del mare, fino a voler distruggere il solenne silenzio con una parola detta ad alta voce".


Così scriveva lo svizzero Arnold Böcklin, il 29 giugno 1880, a Marie Berna di Büdesheim, committente della seconda versione dell'opera. A quel tempo, infatti, Böcklin stava già lavorando ad una prima versione per il suo mecenate. Il contatto con Marie Berna fu tuttavia fondamentale per la redazione definitiva dell'opera.Nel 1864, la committente aveva sposato Georg Berna, proprietario del castello di Büdesheim, ma il matrimonio era durato solo un anno perché, nel 1865, il marito era morto di difterite. La donna, allora diciannovenne, rimase fortemente segnata dall'evento, tanto da fidanzarsi nuovamente solo 15 anni dopo. Secondo Hans Holenweg, massimo conoscitore dell'artista, fu proprio la notizia di questi tragici trascorsi a spingere il pittore ad inserire nel dipinto la figura in piedi, sulla barca, avvolta da un velo bianco. Elemento divenuto centrale nella composizione: rappresenterebbe la donna vedova, ritratta nel momento dell'ultimo saluto al defunto consorte.

L'Isola dei morti diventava così "un'opera consolatoria e di addio", il cui scopo era confortare la vedova, attraverso una rappresentazione allegorica che la aiutasse ad accettare la perdita del suo primo marito, a superarla, per prendere di nuovo in mano la propria vita.


L'opera, la più famosa del Böcklin, è espressione della personalità dell'artista, frutto delle sue esperienze, figlia del periodo storico in cui vede la luce, dominato dal Romanticismo. 
- Sturm und Drang, "Tempesta ed Impeto", questo l'obiettivo dichiarato del movimento che rifiutò i canoni e le armonie neoclassiche, reagì e superò il razionalismo illuminista: colpire, scuotere, suscitare violente emozioni, arrivando a toccare le corde più profonde dell'anima con una parola, un verso, una rima, un tocco di pennello. Scopo dell'artista è Il Sublime, quel sentimento di spaesatezza, impotenza, che nasce nell'animo di fronte alla rappresentazione dell'Infinito. 

Scopo raggiunto dal Böcklin ne "L'Isola dei morti", attraverso ossessivi riferimenti alla morte, spunti paesaggistici, simbolismi, richiami alla mitologia classica. Infinito qui è il silenzio, Sublime il senso di solitudine: nella luce fioca del crepuscolo, in un luogo fuori dallo spazio e dal tempo, un 'romantico' Caronte traghetta una figura misteriosa avvolta da un velo bianco (la vedova Marie Berna? O forse un'anima?), insieme con quella che potrebbe essere una bara. Sullo sfondo si erge un'isola misteriosa, ripide scogliere avvolgono un cimitero scavato nella roccia ed una foresta di cipressi. I remi sfiorano la superficie dell'acqua senza smuoverla. Il mare (o il fiume...L'Acheronte?) è immoto. 
Segreti ancestrali, avvolti da una luce misteriosa, sono custoditi su quell'isola, ma sono destinati a rimanere tali: niente romperà questo silenzio abissale...





Nella foto Adolf Hitler è nel suo studio, insieme a Molotov e Ribbentrop, sullo sfondo "L'isola dei morti"

L'opera, di cui furono redatte cinque versioni, fece la fortuna dell'artista svizzero. Numerosi gli ammiratori: da Salvador Dalì a Sigmund Freud, da Lenin a D'Annunzio, fino ad Adolf Hitler. Quest'ultimo ne acquistò un originale per una cifra esorbitante. La portò sempre con sè...perfino nel bunker in cui si suicidò.