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mercoledì 17 luglio 2013

Un corsaro al "Rock in Roma": il concerto di Mark Knopfler



Il look da rockstar lo ha abbandonato da tempo. Non c'è più quella fascia a raccogliere i capelli, ormai bianchi e diradati; il volto è segnato da nuove rughe. Il tempo passa per tutti, ma il vero talento dura una vita intera: sul palco dell'Ippodromo delle Capannelle, il 13 luglio 2013, Mark Knopfler lo ha dimostrato ancora una volta.

Mark Knopfler e la sua Fender Stratocaster.
I suoni dell'artista britannico segnano una parentesi folk al "Rock in Roma", cui oltre 10.000 persone hanno voluto assistere dal vivo; i volti del pubblico sono in gran parte quelli dei ragazzi degli anni '80, innamorati dei Dire straits e di tutto quello che hanno significato per la storia del rock. Il caloroso abbraccio romano accoglie l'entrata in scena sulle note di "What it is": la mano di Mark scivola sulle corde della Fender e regala un assolo che ricorda molto i vecchi tempi, sollecitando gli animi dei più nostalgici.
Chi crede che a 64 anni un musicista sia in fase calante è subito smentito: in quasi due ore di concerto le sue performance sono state di altissimo livello. Sicuramente avrà imparato a gestirsi, ma sta di fatto che non si intravedono segni di cedimento, e la rapidità di esecuzione è notevole, alle volte sbalorditiva. 
Il concerto scorre fra sonorità nordiche e musiche evocative, intervallate da momenti blues e atmosfere country. Knopfler punta tutto sul repertorio solista, che al riguardo fornisce pezzi di alto livello. Tuttavia i momenti di massima partecipazione del pubblico si hanno con "Romeo and Juliet" e "So Far Away", cantate da giovani e meno giovani, nonchè durante la storica "Telegraph Road": tutti pezzi dei Dire Straits, adattati e innovati qua e là per renderne sempre vivo il significato. Questo dimostra che gran parte dei presenti si aspettava (o quanto meno desiderava) ascoltare i grandi successi del passato, ed è questa la ragione per cui in molti hanno lasciato stupiti e sconcertati l'Ippodromo al termine della serata: grandi assenti, su tutti, "Brothers in Arms" ed in particolare "Sultans of Swing". Ma chi conosce bene il chitarrista nato a Glasgow sa che questo non significa rinnegare il passato o dimenticare le proprie radici: è insito nel percorso di maturazione dell'uomo e del musicista lasciarsi alle spalle le vivaci note della gioventù, magari per dedicarsi ad uno stile più pacato ed introspettivo.
Esemplare al riguardo l'esecuzione di "Father and Son" da parte della band, che risale ai primi tempi del Knopfler solista, ormai vent'anni or sono: gli strumenti richiamano cornamuse e Highlands scozzesi attraverso sonorità struggenti. Ma ecco che dal vecchio nasce il nuovo, e sul pezzo d'orchestra si innesta la più recente "Hill Farmer's Blues": senza una cesura, i due brani scivolano via insieme. Il passato non viene rinnegato, anzi rappresenta un imprescindibile punto di partenza. E'un appoggio sicuro, l'artista se ne avvale per sperimentare nuovi percorsi; costituisce il porto da cui salpare verso destinazioni ignote, alla ricerca di se stessi e della propria dimensione musicale.

Ed è questo il significato di "Privateering", il brano che ha dato il nome all'ultimo album: Knopfler chiama a raccolta i suoi uomini ed i suoi fans per questo ennesimo arrembaggio.
Levata l'ancora, il veliero solca il mare aperto.
Stona con questi proclami però, l'immagine dell'album. Nella luce rossastra del tramonto un furgone vecchio e malandato, senza una ruota, è fermo in una radura desolata. Non c'è anima viva, se non un cane randagio: come a dire che, alla fine del viaggio, l'artista è destinato a ritrovarsi solo con se stesso...

giovedì 9 maggio 2013

Le porte d'Inferno: La battaglia delle Termopili





 Antefatto:  

Serse aveva stabilito l'accampamento della sua immensa armata nella regione della Malide, nei pressi di una stretta gola, passaggio obbligato per la discesa in Grecia e la sottomissione dei suoi rissosi abitanti. 
Numerose sorgenti di acqua calda erano situate intorno al passo, noto per questo col nome di "Termopili", porte calde. Ma presto quelle porte sarebbero state infuocate da una battaglia dura e sanguinosa: qualcosa che il Gran Re non avrebbe mai potuto immaginare.

L'impero di Serse contro la piccola Grecia
Serse I di Persia, figlio di Dario, si fregiava del titolo di "Re dei re": il suo impero era il più grande mai visto fino ad allora. Giunse in Grecia per realizzare il sogno che il padre aveva visto infrangersi a Maratona, "fare in modo che la terra di Persia confinasse solo col cielo che appartiene a Zeus". Per far ciò contava di abbattere il nemico con la forza dei numeri, in terra e in mare. Un'abile diplomazia aveva fatto il resto; c'erano infatti più greci fra le fila del suo esercito che contro. Reietti, esuli, traditori, corrotti o timorosi.
Ma non tutti avevano reagito allo stesso modo. Già ai tempi di Dario, alla richiesta degli emissari persiani di cedere terra e acqua, gli ateniesi risposero scaraventandoli in una fossa e gli spartani cacciandoli in un pozzo: terra ed acqua potevano prendersele da lì.
Così nel 480 a.C Serse giunse in Tessaglia senza problemi, occupando le regioni a nord della Grecia senza incontrare opposizione. I primi uomini ad avere il coraggio di contrastarlo lo attendevano nella gola delle Termopili.

Il Gran Re era sbigottito. Di tutte le strane usanze dei popoli riuniti nel suo impero, questa di cui aveva appena udito era di certo la più bizzarra. Seduto sul suo sfarzoso trono all'interno del tendone reale, enorme in un accampamento smisurato, aveva assistito al resoconto dell'osservatore a cavallo, inviato a scrutare quanti fossero i nemici scesi in campo per affrontarlo nella gola delle acque bollenti. La vedetta aveva riferito che le forze greche riunite nel passo erano esigue. Molti si trovavano al di là di un rozzo muro, probabilmente costruito dai difensori; ma ciò che l'aveva colpito era ben altro. Allo scoperto, di prima mattina, un gruppo di uomini praticava esercizi ginnici di vario tipo, mentre altri compagni erano impegnati a ravviarsi le folte chiome. Poichè nessuno aveva compreso tali comportamenti, Serse chiamò a sè Demarato: un tempo re di Sparta, mandato in esilio dai suoi concittadini. La sua spiegazione, per quanto possibile, lo irritò ancor di più. Quegli uomini di cui si parlava erano spartani, pronti a competere più di ogni altro popolo per contrastare la sua volontà: i più forti soldati di tutta la grecia, l'unico vero ostacolo per la vittoria finale. Si trovavano lì per contendere il passo ai persiani, noncuranti di essere numericamente soverchiati. Comandati dal re Leonida, erano a capo della spedizione greca. Il fatto che fossero intenti a curarsi le lunghe trecce non era un buon segnale: era infatti usanza fra gli spartiati ravviarsi la capigliatura quando si era in procinto di rischiare la vita. 
Questo era l'ennesimo affronto da parte di quel popolo arrogante! Il Re dei re strinse i pugni dalla collera... a stento si trattenne dall'inviare un massiccio attacco frontale e risolvere subito la questione. Nel tendone reale regnava il silenzio: chiunque aveva imparato a temere la sua furia. Alla fine, decise di rispettare la tregua di cinque giorni che aveva offerto ai greci. Ne mancavano quattro: avevano la possibilità di arrendersi o ritirarsi, e non sarebbe stato fatto loro alcun male. Il Gran Re sapeva essere misericordioso con chi prestava obbedienza.

Quei caldissimi 4 giorni dell'agosto del 480 a.C., trascorsero rapidamente. I greci non si erano fatti da parte in alcun modo. E'probabile che qualcuno preferisse la resa, ma l'esempio di Leonida e dei suoi uomini dovette convincere anche i più titubanti a tenere la posizione. Alle Termopili erano giunti circa in 7.000: 300 spartani dell' hippeis, la guardia scelta del re, presi fra coloro che avevano dei figli per assicurare la discendenza, con a loro sostegno iloti e perieci; vi erano poi tebani (probabilmente oppositori del partito filopersiano della madrepatria), e fra gli altri, locresi, tespiesi, focesi. Questi ultimi erano stati inviati da Leonida, in numero di 1.000, a presidiare un sentiero strategico ignoto ai persiani, l'Anopaia.
La resistenza dei greci apparì un atto di stoltezza e scelleratezza impareggiabile agli occhi del Gran Re, che probabilmente andò su tutte le furie. Nonostante la rabbia, riuscì ancora a proporre una soluzione diplomatica: disse a Leonida che se si fosse arreso lo avrebbe nominato re di tutta la Grecia, dovendo rispondere solo a lui, il divino Ksha-yar-shan, in persiano "sovrano di eroi". Lo spartano rifiutò senza colpo ferire. Ormai era chiaro, era giunto il momento del sangue. Serse sollecitò Leonida a gettare le armi e consegnarle ai persiani: ottenne in tutta risposta un laconico «Μολὼν λαβέ». Venite a prenderle!

La Battaglia:


Lo scontro alle porte di fuoco durò 3 giorni. Leonida e i suoi 300, a capo del contingente greco, trattennero l'avanzata di Serse quanto bastò per consentire agli ateniesi di ultimare i preparativi che portarono al trionfo di Salamina. Il passo (che in un punto era largo appena 15 metri) era una posizione strategica fondamentale: da una parte alture rocciose, dall'altra il mare. In mezzo, una parete di scudi e lance, dove il numero non contava nulla. Il clima era torrido, come solo in Grecia può essere a metà agosto, per di più nei pressi di sorgenti di acqua bollente. A tratti, la brezza del mare offriva un piccolo sollievo, scuotendo le vesti, le tuniche, i capelli, i cimieri degli elmi lacedemoni. La libertà della Grecia fu costruita sul sangue e sul sudore dei suoi figli.
Da un lato si ergeva l'oplita spartano. Addestrato fin dalla tenera età alla resistenza e al combattimento, era un uomo fasciato di bronzo. Il suo equipaggiamento (la panoplia) pesava 30 chili, ed era costituito dalla corazza, l'elmo, gli schinieri, lo scudo anch'esso placcato in bronzo. Intimorivano il nemico le lunghe trecce che fuoriuscivano dagli elmi; i cimieri davano all'oplita un aspetto ancor più imponente. Lo scudo pesava ben 10 chili, ed aveva un ruolo fondamentale. Con questo infatti ogni spartano proteggeva il compagno alla sua sinistra, dalla coscia fino al collo. La falange operava come una creatura dotata di vita propria; un solo movimento non coordinato, e poteva andare in pezzi. La posizione più delicata (e più onorevole quindi) era quella all'estrema destra: il posto adatto per un Re. Serrato ed impenetrabile, dal muro della falange fuoriuscivano lance lunghe quasi 3 metri; ogni spartano era poi dotato di una spada corta di riserva, che utilizzava per il corpo a corpo.
Dall'altro lato la fanteria persiana: Medi, Cissi, e via dicendo. Dinanzi ai lacedemoni, ma all'oplita greco in generale, sembravano in uniforme da parata. Indossavano tuniche dai colori sgargianti, una cotta di maglia, turbante in testa. Gli scudi (spesso in vimini) erano piccoli, le lance molto più corte di quelle greche. Non abbandonavano mai i loro gioielli, li indossavano anche in battaglia. Ad eccezione degli Immortali, la guardia personale del Re dei re, erano anche scarsamente addestrati. 


Gli spartani si trovavano nel punto più stretto della gola. Raggruppati per Enomotìe,  attendevano nuovi ordini dagli ufficiali. Silenziosi e disciplinati come li aveva forgiati l'agoghè, lo sguardo fisso all'orizzonte.
Improvvisamente la terra iniziò a vibrare con forza e un grande polverone si levò verso il cielo: i barbari avevano lanciato l'attacco. Finalmente! Da lontano potevano scorgere il luccichio dei gioelli che portavano addosso, pesi inutili, e udire le loro grida di battaglia. Arrivò l'ordine di serrare i ranghi e il clangore del bronzo coprì ogni altro suono. Fianco a fianco, scudo a scudo, gli "eguali" formarono un muro di metallo, le lance in posizione verticale. Cominciarono la marcia, poi la carica; le due armate riducevano sempre di più la distanza che le separava. Infine, l'ordine più atteso: preparare le lance. I soldati delle prime tre file si passarono l'asta sotto l'ascella e la volsero in avanti. La falange era pronta per l'impatto.


Fu una strage. I persiani si accalcarono nel corridoio delle Termopili, migliaia e migliaia di persone stipate in una stretta lingua di terra. I combattenti delle prime file venivano spinti dai soldati alle loro spalle verso le lance greche, mentre i generali di Serse incoraggiavano a colpi di frusta i più titubanti a gettarsi nella mischia. In poco tempo si erano ammassate pile di cadaveri che ostacolavano le cariche dei persiani, facendo inciampare gli assalitori e facilitando il compito degli opliti.
Si dice che Serse balzò in piedi dal suo trono addirittura due volte il primo giorno di battaglia, temendo per le sorti della sua armata. Gli stessi Immortali stavano facendo una brutta fine. 
I greci dominarono i primi due giorni di fuoco. Gli spartani marciavano a piedi nudi al ritmo della musica scandita dai flautisti. A volte davano le spalle al nemico simulando la ritirata, così da incoraggiare le turbe persiane all'assalto: si rivoltavano improvvisamente ricostruendo il muro di scudi in un istante, seminando morte con le lance. Ma evidentemente anche fra le forze dell'Ellade ci furono delle perdite. Spartani, tebani, tespiesi, arcadi si alternavano nelle prime linee per far rifiatare gli alleati, ma comunque gli opliti non erano abituati a combattere tanto a lungo. Gli scontri campali fra poleis erano infatti intensi ma brevi, e si concludevano quando una falange sfondava le file dell'altra. Due interi giorni a combattere con 30 chili di bronzo addosso avrebbero sfiancato anche il prode Eracle.

Serse era allo stesso tempo furibondo, incredulo, disperato. La battaglia stava dimostrando che fra le fila del suo esercito ci fossero sì molti uomini, ma pochi uomini valenti. 
Come i greci furono aggirati e sconfitti
Alla fine del secondo giorno arrivò l'insperato colpo di fortuna. Un tale Efialte di Trachis, cittadina del luogo, forse spinto dal desiderio di quelle ricompense che il Gran Re dispensava generosamente ai suoi fedeli servitori (così dicevano), si recò nell'accampamento persiano e rivelò importanti informazioni. Il valico  delle Termopili poteva essere aggirato, sfruttando un sentiero chiamato Anopaia, nei pressi del fiume Asopo. Il sovrano, pieno di gioia, chiamò subito a sè Idarne, comandante degli Immortali. Efialte avrebbe guidato lui ed i suoi uomini attraverso il sentiero la sera stessa, dopo il crepuscolo.  Fu così che 10.000 uomini si inoltrarono su impervi sentieri montani.
 Giunta l'aurora, i persiani avevano finito la salita e cominciavano la discesa: lì incontrarono i 1.000 focesi posti a guardia del passo da Leonida. La sorpresa fu reciproca, ma una scarica di frecce costrinse gli opliti (convinti di essere i destinatari dell'attacco) a ritirarsi su una collina per l'ultima resistenza. Idarne e i suoi non persero tempo, e di corsa proseguirono lungo l'Anopaia. L'accerchiamento era quasi compiuto.

Quando giunse la notizia Leonida era sveglio, osservava il mare schiumoso infrangersi contro le rocce. 
Un altro tradimento fra i greci. Per l'ennesima volta un uomo aveva venduto la sua dignità in cambio dell'oro persiano, consegnando a Serse le chiavi delle Termopili. Presto i barbari li avrebbero circondati.
Il suo pensiero volò lontano: la regina Gorgo, l'amata Sparta, i verdi ulivi della Laconia. Se voleva tornare nella sua terra e riabbracciare sua moglie, bastava fare un passo indietro e ritirarsi; magari organizzare una nuova linea di resistenza più a sud. Rivolse lo sguardo verso il cielo stellato. Mesi prima, interrogata dai lacedemoni sull'esito della guerra, la Pizia aveva parlato invasata dal dio Apollo: Sparta sarebbe stata distrutta dai barbari, oppure avrebbe pianto la morte di un re della stirpe di Eracle. Adesso era chiaro... Voltò le spalle alle onde. Il suo sguardo si posò sopra il suo scudo... Il re ricordò cosa significava essere uno spartano. "Con questo o sopra di questo".
No, non se ne sarebbe mai andato. Per lui e per i suoi uomini, lì alle Termopili, era giunto il momento atteso da sempre: morire in battaglia, combattendo per la libertà della patria. Tutto ciò per cui avevano vissuto. Serse avrebbe pagato la discesa in Grecia con il sangue, perchè gli spartani sarebbero rimasti sul posto, accerchiati o meno. E il loro sacrificio avrebbe riempito Sparta di gloria.
Ringraziò l'osservatore delle preziose informazioni, fece svegliare i compagni e riunì il consiglio di guerra. Come aveva immaginato, non tutti gli alleati condividevano le sue idee. Congedò coloro che non erano determinati al combattimento, insieme ai lacedemoni rimasero solo tespiesi e tebani. Spuntavano le prime luci del mattino, Leonida chiamò a raccolta gli uomini che avevano accettato di condividere con lui quel magnifico giorno. Istintivamente, il re si passò le mani tra i capelli.

Molti autori hanno provato a riportare il discorso che quella mattina Leonida rivolse ai suoi uomini, ma nessuno sa con certezza cosa disse. Probabilmente parlò non da spartano, ma da greco libero; rivolgendosi non a spartani, tespiesi a tebani, bensì a uomini della Grecia. Dopotutto quel giorno non si combatteva per questa o quell'altra polis, ma per l'indipendenza della terra dei padri. Disse loro di bere molto vino, per ridurre la percezione della fatica e del dolore; li invitò a consumare l'ultimo pasto della loro vita. 
Insieme, quella sera avrebbero cenato nell'Ade.

I persiani stavolta non si comportarono da sprovveduti, coordinando bene i due fronti d'attacco. I greci, stanchi e ridotti ai minimi termini, cadevano uno dopo l'altro. Lo stesso Leonida perse presto la vita: intorno al suo cadavere si formò subito una mischia furibonda, vinta inizialmente dagli alleati. Tuttavia non erano abbastanza numerosi per proteggerlo, così il cadavere del re venne conteso altre tre volte, fino a giungere nelle mani di Serse. Questi prima lo decapitò, poi fece crocifiggere il corpo. Alla fine dello scontro la testa di Leonida venne lasciata a marcire alle Termopili, in cima ad una picca.
Spartani e tespiesi indietraggiarono oltre il muro focese e si ritirarono sul colle Kolonos, per un ultimo disperato tentativo di resistenza. I tebani adottarono un'altra strategia: anzichè seguire i compagni, si prostrarono ai piedi dei barbari, pregando di essere perdonati per la loro insolenza e chiedendo di potersi unire alla causa persiana. Serse fece marchiare a fuoco e rese schiavo chi di loro non era già stato ucciso.
Sul Kolonos invece, gli uomini liberi continuavano a combattere: con la spada chi ne possedeva ancora una, con lance spezzate gli altri. Infine i greci, disarmati, si scagliarono sul nemico con le unghie e con i denti. Morirono ricoperti da una scarica di frecce, che evitò al Gran Re ulteriori perdite.

Così terminarono i tre giorni d'inferno, e l'esercito di Serse marciò verso l'Attica. C'è chi sostiene che lo scontro non fu decisivo, ma in realtà le Termopili cambiarono tutto, dimostrando che non era con la forza dei numeri che si sarebbe risolta la seconda guerra persiana. Alzarono la posta in gioco. L'arroganza del Re dei re stava per cedere contro il genio di Temistocle.

Monumento celebrativo alle Termopili


In seguito, alle Termopili fu posta una stele di pietra, con incisi i versi del poeta Simonide:

« ὦ ξεῖν', ἀγγέλλειν Λακεδαιμονίοις ὅτι τῇδε
κείμεθα τοῖς κείνων ῥήμασι πειθόμενοι »

« O straniero, và e riferisci agli spartani
che nel rispetto delle loro leggi noi qui giacciamo »


"Venite a prenderle!"

venerdì 26 aprile 2013

La prima "codificazione". La Stele di Hammurabi

Bassorilievo sulla Stele: Hammurabi riceve le leggi dal dio del Sole


Nel 1902 a Susa (Iran) l'importantissimo ritrovamento: dopo secoli e secoli, sepolta dalla sabbia e dal tempo, tornava alla luce la Stele di Hammurabi.
Un blocco di basalto nero alto più di due metri, inciso da una miriade di caratteri cuneiformi disposti su 49 colonne e ben 3.600 righe, raccoglie 282 leggi: le più antiche mai messe per iscritto. Sono le norme che reggevano una civiltà fiorente ed evoluta, Babilonia. Quando vennero incise, Hammurabi regnava da più di un decennio su un vasto territorio, che si estendeva dal Golfo Persico fin quasi le coste del Mar Mediterraneo, attraverso tutta la Mesopotamia: correva l'anno 1780 a.C.


Sulla sommità della Stele siede sul trono Shamash, dio del Sole e della giustizia. Porge ad un uomo i segni del potere, il bastone e l'anello: esile al suo cospetto, il re Hammurabi solleva una mano in segno di saluto, e si appresta a ricevere le leggi del suo popolo. Al di sotto, caratteri cuneiformi incisi sul basalto ci tramandano attraverso i millenni gesta ed onorificenze del re babilonese (narrate in prima persona), nonchè il diritto su cui poggiavano le genti della Mesopotamia.

Per molto tempo storici e critici sono stati d'accordo nel ritenere che quella della Stele fosse una raccolta di leggi in senso proprio, ossia una collezione di norme generali ed astratte all'interno di una forma sia pure primitiva di codificazione. Gli studiosi, oggi, hanno qualche dubbio al riguardo.
In epoca così remota, per i babilonesi come per gli altri popoli, il diritto era tramandato oralmente di generazione in generazione: insieme alla religione ed alle consuetudini formava l'identità culturale di una popolazione. Pertanto quella di Hammurabi più che un'opera di codificazione (intesa come raccolta della totalità delle leggi vigenti), fu sicuramente un intelligente atto di propaganda politica e di celebrazione dei suoi grandi successi, non solo militari. Difficilmente infatti le norme incise sulla Stele potevano essere applicate in via generale: sono più che altro delle soluzioni casistiche, elaborate in circostanze concrete. Come risulta da documenti della stessa età, sono sentenze dello stesso re, raccolte tutte insieme, come esempio di "buon governo" per i suoi successori. Un diritto a base casistica dunque: tipico delle popolazioni antiche, esattamente come fu anche per Roma. A differenza però dei codici primitivi, fra cui le XII Tavole (incise nel 451 - 450 a.C., oltre 1300 anni dopo la Stele!), quello di Hammurabi non è un codice processuale. Non contiene cioè norme sullo svolgimento del processo, ma solo norme civili e penali. Altro elemento caratteristico è l'assenza assoluta di precetti di diretta derivazione divina - religiosa. Poi sicuramente l'aspetto maggiormente noto a tutti, ossia l'ampio ricorso alla legge del taglione.

Le 282 leggi fanno luce sul mondo di una civiltà splendente, forte, sicuramente evoluta rispetto agli standard dell'epoca. Parliamo di quasi 4.000 anni fa, eppure la tecnica giuridica con cui quelle norme sono redatte è sicuramente affinata. La struttura è sempre la stessa: ciascun articolo si apre con la protasi (il fatto) e si chiude con l'apodosi (la sanzione).
 Un esempio: 




218.: "Se un medico cura alcuno di una grave ferita colla lancetta di bronzo [bisturi] e lo uccide, o gli apre una piaga colla lancetta di bronzo e l'occhio è perduto, gli si dovranno mozzare le mani."

Un articolo sulla responsabilità del medico, peraltro argomento ancora di stretta attualità.
Il pensiero legislativo è espresso con rigore e si ripete costante: proposizione ipotetica, proposizione imperativa.
Delitto e castigo.
Ancora:

 1.: "Se un uomo accusa un altro uomo di omicidio senza fornirne le prove, l'accusatore sarà condannato a morte." 

Come accade anche oggi, per poter ottenere una sentenza di condanna dell'imputato occorre portare dinanzi al giudice le prove necessarie. Lo Stato si preoccupa di punire direttamente il colpevole per evitare vendette private, ma è certo che qui la sanzione sia particolarmente dura: alla faccia dell'onere della prova!


Grande valore storico - culturale, reperto importante per aprire una finestra su un'epoca remota ed affascinante, ma non solo. La Stele di Hammurabi può anche essere foriera di riflessioni utili per il presente. Mi riferisco all'articolo numero 5, riguardante le prevaricazioni di un giudice. Quello della responsabilità civile del magistrato è un annoso problema che affligge il nostro ordinamento: l'attuale disciplina risalente al 1988 è sempre stata criticata, tanto che attualmente si sta discutendo in Parlamento perchè venga riformata. E'una disciplina compromissoria, sicuramente troppo attenta a bilanciare le esigenze contrapposte della preservazione della tranquillità del giudice e dell'assoggettamento dei magistrati ad un certo grado di responsabilità per le azioni che compiono nel loro operato: nei tre casi in cui il giudice agisca con dolo, colpa grave, ovvero qualora la sua attività comporti un prolungato diniego di giustizia, il cittadino avrà diritto all'azione risarcitoria aquiliana. Ma non nei confronti del giudice, bensì dello Stato, che in una prima fase dovrà risarcire direttamente il danneggiato, naturalmente in caso di condanna. In una successiva ed eventuale seconda fase lo Stato potrà rivalersi nei confronti del giudice, ma non per l'intero, bensì solamente per una cifra non superiore ad un terzo dello stipendio annuale netto dello stesso (salvo il caso del dolo, in cui non vi sono limiti al regresso). Non un eccellente dissuasivo, tanto che si parla di pena pecuniaria piuttosto che di responsabilità civile del magistrato. Ma cosa c'entra con tutto questo il diritto babilonese?
C'entra eccome, in quanto Hammurabi 4.000 anni fa poteva vantare un deterrente sicuramente migliore di quello di cui disponiamo oggi:  
5.: "Se un giudice conduce un processo ed emette una decisione e redige per iscritto la sentenza, se più tardi il suo processo si dimostra errato e quel giudice nel processo che egli ha condotto è convinto di essere ragione dell'errore, egli allora dovrà pagare dodici volte la pena che in quel processo era stabilita, e si dovrà pubblicamente cacciarlo dal suo seggio di giudice, nè dovrà egli tornarvi per sedere di nuovo come giudice in un processo."

Il diritto della Stele, quindi, ci offre alcuni spunti su cui concentrarsi per una riforma coerente ed efficace sulla responsabilità civile del magistrato. Innanzi tutto, la rimozione dall'incarico per un giudice incompetente o corrotto. In secondo luogo un processo diretto, in quanto oggi come oggi il cittadino non può citare direttamente il giudice, ma muovere causa solamente allo Stato. Terzo, la condanna: commisurata non alla retribuzione, bensì alla pena inflitta (e quindi al danno cagionato) nel processo viziato.

sabato 20 aprile 2013

Sparta: le origini del mito e la Costituzione


L'odierna città di Sparta sorge immediatamente a sud dell'antica polis, rasa al suolo dai goti nel IV secolo, quando l'impero romano d'occidente cadeva ormai a pezzi. Rifondata nella prima metà del 1800, è un insediamento piuttosto anonimo, che di per sè non lascia intendere  l'orgoglio e l'autorità dei tempi passati. Niente di nuovo in realtà, lo storico Tucidide scriveva infatti nel V secolo a.C.: "se oggi la città dei Lacedemoni venisse abbandonata e rimanessero solo i templi e le fondazioni degli edifici, i posteri difficilmente potrebbero credere alla potenza e alla fama di Sparta."
Siamo nella parte sud - orientale del Peloponneso: nella regione della Laconia, dove il fiume Eurota scorre tranquillo, oggi come 3.000 anni fa. Forma un altopiano fertile ricco di ulivi, circondato da due catene montuose, il Taigeto ed il Parnone, in una vera e propria fortezza naturale. Ciò spiega in parte il successo della polis, come anche il carattere dello spartano: chiuso, testardo, misterioso a qualunque straniero tenti di avvicinarlo. 


"...lo stesso Zeus ha dato questa città agli Eraclidi, coi quali lasciammo il ventoso Erineo e giungemmo nel vasto Peloponneso."
                                                                                   Tirteo. 

La fondazione della città di Sparta da parte di tribù di stirpe dorica è circostanza di difficile collocazione temporale, databile fra il 1050 e l'800 a.C.
In realtà abbiamo attestazioni remote dell'esistenza della città: nell' Iliade (poema che narra eventi risalenti al XIII secolo a.C.) Omero parla di "Lacedemone dalle valli profonde", retta dal re Menelao e dalla regina Elena, il cui rapimento diede il via alla guerra di Troia. Sta di fatto che l'avvento dei dori in Laconia da nord portò la fondazione della polis attraverso la riunione di quattro villaggi: Limne e Cinosura prima, Mesoa e Pitane poi (Sparta viene dal greco Σπάρτη, disseminata). Questo attraverso la sottomissione della popolazione indigena, ridotta alla condizione di iloti, schiavi di proprietà dello Stato. Non ci aiutano fonti certe su questo periodo, nel pieno del Medioevo ellenico infatti l'assenza della scrittura portò alla trasmissione orale di questi eventi, che oggi appaiono immersi nella leggenda. Così i dori non sarebbero brutali conquistatori: essi, discendenti di Eracle, avrebbero semplicemente fatto valere i loro diritti tornando nelle terre che Zeus aveva loro concesse. Ecco pronta la giustificazione per quella che dovette essere una sanguinosa conquista, che contribuì alla fine della civiltà palaziale.
L'origine divina è una costante a Sparta: giustificò non solo la sua fondazione, ma anche il suo ordinamento e le sue istituzioni. Fu quella forza che consentì ai suoi cittadini di accettare una forma di governo che controllava totalmente le loro vite, dalla nascita fin oltre la morte; portò gli spartani a pensare e vivere non come individui, bensì come parte indispensabile di uno stato cui prestavano cieca obbedienza e massima dedizione. La celebre battaglia delle Termopili non è l'unico esempio.
Ma quali sono le caratteristiche dell'ordinamento di Sparta? C'è grande curosità intorno a questo interrogativo, soprattutto per l'aspetto che caratterizzava maggiormente lo stato spartano: la sua propensione pressocchè totale alla guerra. Gli spartani ambivano a dominare la Grecia, la ritenevano territorio di proprio competenza.
C'è da dire però che tale propensione bellica non fu frutto di una presa di posizione aprioristica, bensì il risultato degli eventi che segnarono la fondazione della città ed i suoi primi sviluppi. Dopo la "ilotizzazione" della Laconia infatti, fondamentali per lo sviluppo di Sparta furono le guerre messeniche, intraprese per l'annessione dei territori della Messenia. La prima fu vinta nell'VIII secolo e comportò la conquista della regione e la riduzione in schiavitù della popolazione. Ma i messeni non furono mai domati completamente: ogni volta che se ne presentava l'occasione, quando per guerre o calamità naturali Sparta sembrava essersi indebolita, si ribellavano ferocemente. 
Sparta viveva sempre con il terrore che gli iloti potessero insorgere in massa e, dato che il loro numero sovrastava quello dei cittadini di pieno diritto, gli spartiati, ben si comprende la formazione di un ordinamento il cui scopo primario era quello di crescere e costruire la più forte fanteria della Grecia. Basti pensare che durante la guerra del peloponneso gli spartiati erano circa 8.000 (ed è il massimo numero di guerrieri - cittadini di pieno diritto che Sparta ebbe mai), mentre gli iloti erano ben 350.000.
L'ordinamento quindi fu frutto di una lenta evoluzione storica, anche se la leggenda ci dice qualcosa di diverso: attribuisce al mitico legislatore Licurgo la creazione delle leggi fondamentali della polis.


"Un giorno riflettevo su come Sparta, una delle città meno popolose, sia divenuta una delle più potenti e celebri città della Grecia e mi meravigliavo di tutto ciò.
Poi pensai alle istituzioni degli spartiati e finii di stupirmi."


                                                                                                          Senofonte.


La storia del legislatore Licurgo racconta di un uomo che viaggiò, e tanto, durante la sua vita. Visitò molte città, conobbe mondi diversi fra loro, comprese ciò che era buono per la crescita di una polis e ciò che invece poteva essere dannoso. Non a caso l'opera di creazione dell'ordinamento politico e sociale di Sparta che gli viene attribuita è nota come eunomia, ossia "buon governo". Le regole da lui poste a Sparta sono il frutto di un responso dell'oracolo di Delfi (la rhetra): secondo la tradizione sono stati gli dèi stessi a regolare le fondamenta dello stato lacedemone, ed a questo si deve il forte conservatorismo che lo caratterizzò sempre. Se quelle regole erano state poste dagli dèi, come potevano mai essere sovvertite? Di certo non lo avrebbero fatto i religiosissimi spartani.
Prodotto dell'eunomia fu anzitutto una società rigidamente suddivisa in classi. Al livello più basso vi erano gli iloti, schiavi pubblici (non appartenevano a questo o quel cittadino, bensì solo allo stato) obbligati a coltivare gli appezzamenti di terra attribuiti in egual misura a ciascun cittadino, per garantirne l'indipendenza economica. Anche i terreni erano di proprietà pubblica, erano infatti inalienabili.
Vi erano poi i perieci, sostanzialmente abitanti delle comunità attorno Sparta: vivevano in stretta connessione con lo stato lacedemone, pur non essendone parte integrante. Non godevano infatti dei diritti politici, ma a differenza dei cittadini potevano svolgere attività produttive: si dedicavano così all'agricoltura, al commercio, etc. Erano chiamati a supportare la falange oplitica in battaglia, dovevano subire ingerenze nella propria giurisdizione, pagare tributi. Tra queste comunità e Sparta intercorreva un rapporto simile a quello che legava Roma ai socii italici.
Cittadini pleno iure, nonchè componenti della leggendaria falange spartana, erano gli spartiati. Appena nati, la loro idoneità fisica era valutata dai membri più anziani della collettività: deboli e storpi venivano esposti sul Taigeto. Sottoposti fin dalla tenera età a rigidi addestramenti e prove fisiche, potevano esercitare i diritti politici dal compimento dei 30 anni. Ma la loro vita in comunità iniziava ben prima, quando cioè all'età di sette anni venivano sottratti alle loro famiglie e assegnati a istituti pubblici, per essere educati alla vita sociale, politica e militare della polis. La loro educazione era chiamata agoghè: il risultato era il perfetto cittadino - oplita. Gli spartiati non potevano svolgere nessuna attività produttiva: i loro poderi erano coltivati dagli schiavi, pertanto avevano tutto il tempo a disposizione per partecipare alla vita politica e addestrarsi alla guerra (ma d'altronde, che senso aveva attaccarsi al potere materiale ed alla ricchezza, in una città in cui moneta corrente erano lunghi spiedi di ferro?). La loro vita li vedeva raramente passare il tempo a casa con la famiglia. Da qui anche il ruolo fondamentale che svolgeva a Sparta la donna, cui era affidata la non facile gestione degli affari domestici: molto considerata ed indipendente come in nessun altra polis, nemmeno nella democratica Atene. I loro mariti, quando non erano chiamati lontano da casa per sostenere campagne militari, dovevano comunque dedicarsi alla vita politica della città, che non lasciava quasi mai tempo libero: erano però orgogliosi della loro posizione esclusiva e paritaria, si facevano chiamare gli "eguali". Punto importante della vita in comunità erano i sissizi, pasti comuni, ai quali ogni cittadino doveva contribuire fornendo determinate quantità dei prodotti dei suoi terreni: per coloro che non riuscivano a pagare queste quote obbligatorie pena era il declassamento nella categoria degli hypomenies, gli "inferiori", privi di diritti politici.
I motaci invece, erano figli di cittadini e iloti e come tali privi di diritti politici, ma educati al pari degli spartiati. 

Per quanto riguarda l'ordinamento politico, anche a Sparta erano presenti organi tipici delle poleis greche: tutte erano infatti caratterizzate da un'assemblea popolare, un consiglio di nobili o anziani, e da una magistratura dalle competenze specifiche. Era il prevalere di uno di questi elementi che rendeva una città democratica piuttosto che aristorcatica, o magari tirannica. A Sparta i diversi elementi si combinavano formando un perfetto equilibrio: sicchè non possiamo parlare nè di monarchia, nè di oligarchia, nè di democrazia.
La città disponeva di due re, ai quali erano affidati compiti militari e religiosi: erano i generali dell'esercito spartano e conducevano le operazioni militari. Inoltre rappresentavano la comunità davanti agli dèi: avevano quindi specifiche responsabilità legate al culto di dèi ed eroi. La diarchia sembra essere un retaggio dell'organizzazione tribale dei dori.
Gli spartiati, compiuti i 30 anni, esercitavano i loro compiti politici (ed i loro diritti) nell'assemblea popolare, l'apella, che eleggeva i membri del consiglio degli anziani: particolarità tutta lacedemone era la modalità di votazione, non per numero bensì per acclamazione. L'assemblea non aveva poteri di iniziativa politica, nè di discussione delle istanze che le venivano proposte: poteva semplicemente approvare o respingere, similmente a quanto accadeva a Roma con i comizi centuriati.
Gli spartiati particolarmente meritevoli , raggiunti i 60 anni di età, potevano essere eletti quali membri del consiglio degli anziani, la gerusia. Questo consiglio aveva una competenza politica e penale: infatti stabiliva quali proposte di legge andassero presentate in assemblea, ed aveva prerogative giurisdizionali per quanto riguarda i giudizi capitali.
Tutti questi organi erano già conosciuti dalla rhetra delfica, il responso oracolare su cui basò la propria eunomia Licurgo, dunque fondavano la loro legittimità direttamente sul volere delgi dèi; ma in seguito un ulteriore organo venne istituito. Gli efori, eletti in numero di cinque dall'assemblea popolare, dal VI secolo a.C. svolsero a Sparta compiti che possiamo accostare a quelli delle odierne Corti di legittimità: erano infatti i garanti delle leggi fondamentali dell'ordinamento. Lungo l'annuale durata del loro incarico custodivano la costituzione, il nucleo divino dell'ordinamento spartano. I loro poteri molto spesso li portarono in contrasto con i re: questi spesso cercavano di arrogarsi poteri eccedenti le loro possibilità. Un contrasto fra poteri dello stato che si ripropone anche nelle democrazie dei giorni presenti.

Scudo spartano: lambda rossa in campo bronzo
Questa struttura politico - sociale fu elogiata e ammirata da molti intellettuali e politici. Uno su tutti il filosofo Platone: egli apprezzava in particolar modo la Costituzione degli spartani, per il fatto che le leggi fondamentali venissero sempre rispettate e mai messe in discussione. Questo naturalmente per la loro origine divina, che è causa del forte conservatorismo che regnava nella polis. Questa rigidità fu non solo un tratto caratterizzante, ma anche la forza di Sparta: è la materia con cui venne forgiata la più forte falange oplitica di tutta la Grecia, le cui imprese vennero presto mitizzate. Spesso era sufficiente la vista della lambda (Λ) rossa sul bronzo degli scudi dei lacedemoni per determinare gli avversari alla fuga. Molti scontri campali vennero vinti non dagli spartani, ma dalla fama che si erano costruiti nel tempo! 
Ma la rigidità fu anche la debolezza di Sparta. L'incapacità di adattarsi alle nuove esigenze, sorte nel momento in cui il trionfo nella guerra del Peloponneso le consegnò l'egemonia sull'Ellade, la portò presto al declino. Anzi, ad un crollo rovinoso, sotto i colpi dei tebani guidati dal generale Epaminonda. A Leuttra, nel 371 a.C., subì una sconfitta tremenda, dalla quale non si rialzò mai più.

sabato 13 aprile 2013

L'Arte del Caravaggio: La "Vocazione di san Matteo"

Michelangelo Merisi da Caravaggio, "La Vocazione di san Matteo", 1599-1600
 1573 - 1610:
Caravaggio nacque e visse nel periodo della Controriforma. 
Anni in cui la Chiesa cattolica reagiva alla riforma protestante, ne combatteva la spinta centrifuga: ciò avvenne in particolare attraverso nuovi impulsi nel campo artistico. Molte chiese vennero restaurate, dal pontificato di Sisto V Roma fu addirittura trasformata urbanisticamente ad maiorem Dei et Ecclesiae gloriam. Notevole fu l'incremento della committenza soprattutto nelle arti figurative. Per un artista, a maggior ragione in questi anni, Roma era la meta più ambita. 
Caravaggio giunse nell'Urbe nel 1593, persi tragicamente il padre ed il nonno in tenera età e la madre a 19 anni, dopo un breve periodo di apprendistato a Milano presso la bottega del pittore manierista Peterzano. Si fece conoscere presto: nel 1595 il cardinale Francesco Maria del Monte, innamoratosi del suo talento, divenne il suo primo protettore.
Entrò in contatto con le famiglie aristocratiche romane, per le quali iniziò a dipingere. Il primo incarico pubblico gli venne commissionato proprio grazie al cardinal Del Monte: tre tele per la cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi. Fu così che iniziò a lavorare sulla "Vocazione di san Matteo".


Arrivato a Roma, come detto, nel 1593, il giovane Caravaggio entrò in contatto con diversi pittori locali, che subito cercarono di istruirlo su quanto un giovane pittore dovesse fare per poter arrivare lontano. Innanzi tutto rimanere umile, sempre pronto ad apprendere; in secondo luogo disegnare sculture, che Roma offriva in abbondanza; infine concentrarsi sullo studio dei maestri, cercando di seguire i loro passi. Completato tale percorso, un artista poteva giovarsi di un bagaglio tecnico completo, dominava un talento plasmato secondo l'esempio dei grandi del passato: era pronto per mettere al servizio della Chiesa cattolica la propria visione del paradiso, per vincere la "guerra delle anime" contro il Protestantesimo.
Niente di più lontano dalle ambizioni del Caravaggio. Disegnare? Un evento raro nella sua pratica artistica. Essere umili? Non ne parliamo. 
Visione del paradiso? Impossibile, l'uomo non può conoscere ciò di cui non ha esperienza. L'artista può conoscere il mondo, tutto ciò che può osservare e percepire con i sensi. Solo la realtà può essere riportata sulla tela: non c'è spazio per la ricerca del bello ideale, tantomeno per l'invenzione. Esiste solo lo stato dei fatti, l'hic et nunc. Scrive con straordinaria efficacia l'Argan che per il Caravaggio l'arte non è attività intellettiva, ma morale: non consiste nel distaccarsi dalla realtà e rappresentarla, ma nell'immergersi nella realtà e viverla.

E'quanto emerge chiaramente dalla Vocazione. L'artista non rappresenta una scena ideale, ma riesce a trovare il sacro nella vita dei miserabili, prende il divino e lo trascina in una scena quotidiana. La rappresenta nuda e cruda. Così Gesù appare nell'angusta penombra di un'osteria romana. Seguire l'esempio dei maestri? Cose da manieristi. Lui era andato oltre, aveva trovato la sua strada. La Vocazione di san Matteo in un certo senso rappresenta anche la vocazione dell'artista: è infatti la prima tela in cui dipinge attraverso forti, drammatici contrasti luci - ombre. Quella pittura dai toni vivaci che aveva accompagnato la sua giovinezza apparteneva ormai al passato.
Insieme al Cristo entra in scena un lampo di luce divina che illumina la scena: il gesto perentorio della mano viene timidamente ripetuto dall'apostolo Pietro. Tutti sono sorpresi e si voltano verso la fonte di luce, tranne gli avari che contano i denari. Matteo è incredulo: 
tu. -chi, io? -tu.
Non si scappa. La chiamata di Dio arriva quando meno te l'aspetti. Può soprendere l'uomo in qualsiasi momento, persino nel peccato. I protagonisti indossano abiti moderni: non si tratta semplicemente di un antico racconto, ma di un evento che continua a succedere oggi, che potrebbe accadere domani. A chiunque.
La lama di luce che entra nella stanza è allo stesso tempo reale ed ideale: investe le figure, rappresenta la grazia. Lasciando la figura del Cristo nella penombra, l'artista non fa altro che porre in risalto il gesto della mano.

Ma potrebbe esserci qualcosa di più. Quel lampo potrebbe conservare il 'manifesto pittorico' del Caravaggio, il ruolo che affidava alla sua arte. Quella luce potrebbe rappresentare l'artista stesso: indaga, investe le figure dando un volto a personaggi altrimenti ignoti, scopre il peccato e lo denuda, crudelmente, su una tela. Quella luce è il Caravaggio. Lui che è entrato in sporche botteghe ed ha frequentato locande malfamate; lui che è stato fra gli ignobili ed i miserabili; lui che ha visto e sentito, che ha potuto toccare con mano la depravazione. L'artista non inventa ma rappresenta ciò che ha vissuto: la grandezza del Caravaggio sta nell'aver preso quali soggetti della sua arte persone comuni, gli umili, nell'aver raffigurato il loro mondo e la loro vita.
Così nella Vocazione non è rappresentato solo il peccato, ma anche il preciso istante in cui l'uomo (l'umanità tutta!) può riscattarsi, ricevendo la scintilla divina della redenzione.

lunedì 8 aprile 2013

Un uomo che affronta il Sublime: il "Viandante sul mare di nebbia"

Caspar David Friedrich, "Viandante sul mare di nebbia", 1818

           


        "Così tra questa 

immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare."
                   
                           (G.Leopardi, 'L'Infinito', 1819)
  
Quando Leopardi si abbandonava all'infinito, cercando un "dolce naufragio" che lo sollevasse dai drammi dell'esistenza, il capolavoro del Friedrich vedeva la luce ormai da un anno.
Il poeta di Recanati non aveva raggiunto il punto d'approdo del suo pensiero. Non ancora.
Per lungo tempo, raggiungendo vette altissime con la sua poesia, si sarebbe dedicato ad una faticosa ricerca della trascendenza, del divino. Arrivando più di una volta a sfiorare la mano protesa della Fiducia, ma ritraendosi sempre all'ultimo istante: dopo aver navigato per anni nel mare del pessimismo cosmico, avrebbe gettato l'ancora nel porto del nichilismo.

La figura del Viandante ci racconta una storia totalmente diversa. Friedrich è un artista romantico, ma la sua opera è permeata da una forte religiosità, trasmessagli dalla  famiglia. I suoi quadri sono delle visioni, in cui la natura non è rappresentata in maniera realistica, bensì indagata nella sua azione sull'individuo; contrapposta nella sua infinità, alla finitezza dell'essere umano. Ma proprio quando il terrore, l'impotenza, l'esperienza del Sublime sta per travolgere l'uomo, si accende una speranza: attraverso la Natura, sia pure non comprensibile nella sua totalità, possiamo scorgere il sentiero che conduce a Dio.
Nel 1818 l'artista era nel pieno delle sue forze, ancora non si intravedevano i segni della malattia che lo avrebbe
gradualmente portato alla morte, nel 1840.




Anche al di fuori dell'opera di Friedrich, la figura del Viandante ci affascina smisuratamente: colui che parte per un lungo viaggio contando solo sulle proprio forze. Cerca la conoscenza, la verità o forse anche se stesso: ad ogni modo, siamo portati ad immaginare questo viaggio come ricco di avventure. Ci affascina perchè noi stessi, come lui, siamo in cammino e alla ricerca di qualcosa nella nostra vita.

Il "Viandante sul mare di nebbia" è rappresentato di spalle. Una tecnica innovativa, che simboleggia l'inconscio: l'artista vuol farci capire che si è abbandonato ai propri sentimenti, accantonando la ragione. Solo facendosi guidare dall'irrazionale l'uomo può avvicinarsi alla Natura, quindi a Dio: per potersi specchiare nell'Infinito, deve riconoscere che certi concetti vadano al di là della portata dell'intelletto, accettarne la manifestazione senza voler indagare oltre. Alcune verità sono celate: da un mare di nebbia...
Quest'uomo si erge, solitario, sulla cima di un dirupo. Ammira uno scenario maestoso ed incomprensibile, rispetto al quale però rimane estraneo. C'è solo il vento a scuotergli i capelli: in un solo momento, è tanto lontano dalla Natura quanto dal resto dell'umanità.
Per questo il Viandante è un eroe. E' l'eroe romantico, la sua tragedia si consuma in questa profonda solitudine. Ed allo stesso tempo egli è l'immagine dell'artista, lontano dalla società e consapevole della sua diversità. Ne è fiero. Il suo genio lo ha condotto davanti all'avventura del sovrannaturale: non si tira indietro, non china il capo ma la affronta a viso aperto, pur consapevole dei propri limiti.
A questo punto ogni uomo o eroe avrebbe ceduto: non si può resistere al Sublime, questa esperienza non può non lasciare tracce. Così non è in questo caso, perchè il Viandante ha un'enorme forza dentro di sè a sostenerlo, ha delle certezze che molti uomini non hanno:
egli ha fede in Dio. Difatti, la nebbia non ha celato ogni cosa ai suoi occhi: degli speroni rocciosi si sollevano dalle ombre. Questi non rappresentano altro che le verità della religione cristiana, luci che non tramontano mai nella vita del credente: ed è per questo che, a differenza del Leopardi, Friedrich non conosce il naufragio.
A testa alta quindi, lo sguardo del Viandante riesce a superare le incertezze del mondo mortale, rappresentate nel primo piano dal frastagliato mare di nebbia, per giungere fino al lontano orizzonte: il paesaggio placido e sterminato dello sfondo, nell'immaginario dell'artista, rappresenta la riunione con Dio, al termine di una vita piena di insidie e di difficoltà che mettono alla prova la fede del credente.



Il dipinto è considerato come un vero e proprio manifesto del Romanticismo,  ma interpretato in maniere contrastanti dalla critica. Alcuni ritengono il suo messaggio contraddittorio: lascerebbe intendere il dominio dell'individuo sul paesaggio, ma allo stesso tempo la sua irrilevanza nella rappresentazione. Quest'apparente incoerenza potrebbe essere risolta ricordando che l'autore, prima ancora di essere romantico, è credente: ed è appunto rileggendo l'opera in chiave religiosa che si è cercato di rispondere all'enigma del Viandante.