Antefatto:
Serse aveva stabilito l'accampamento della sua immensa armata nella regione della Malide, nei pressi di una stretta gola, passaggio obbligato per la discesa in Grecia e la sottomissione dei suoi rissosi abitanti.
Numerose sorgenti di acqua calda erano situate intorno al passo, noto per questo col nome di "Termopili", porte calde. Ma presto quelle porte sarebbero state infuocate da una battaglia dura e sanguinosa: qualcosa che il Gran Re non avrebbe mai potuto immaginare.
L'impero di Serse contro la piccola Grecia |
Ma non tutti avevano reagito allo stesso modo. Già ai tempi di Dario, alla richiesta degli emissari persiani di cedere terra e acqua, gli ateniesi risposero scaraventandoli in una fossa e gli spartani cacciandoli in un pozzo: terra ed acqua potevano prendersele da lì.
Così nel 480 a.C Serse giunse in Tessaglia senza problemi, occupando le regioni a nord della Grecia senza incontrare opposizione. I primi uomini ad avere il coraggio di contrastarlo lo attendevano nella gola delle Termopili.
Il Gran Re era sbigottito. Di tutte le strane usanze dei popoli riuniti nel suo impero, questa di cui aveva appena udito era di certo la più bizzarra. Seduto sul suo sfarzoso trono all'interno del tendone reale, enorme in un accampamento smisurato, aveva assistito al resoconto dell'osservatore a cavallo, inviato a scrutare quanti fossero i nemici scesi in campo per affrontarlo nella gola delle acque bollenti. La vedetta aveva riferito che le forze greche riunite nel passo erano esigue. Molti si trovavano al di là di un rozzo muro, probabilmente costruito dai difensori; ma ciò che l'aveva colpito era ben altro. Allo scoperto, di prima mattina, un gruppo di uomini praticava esercizi ginnici di vario tipo, mentre altri compagni erano impegnati a ravviarsi le folte chiome. Poichè nessuno aveva compreso tali comportamenti, Serse chiamò a sè Demarato: un tempo re di Sparta, mandato in esilio dai suoi concittadini. La sua spiegazione, per quanto possibile, lo irritò ancor di più. Quegli uomini di cui si parlava erano spartani, pronti a competere più di ogni altro popolo per contrastare la sua volontà: i più forti soldati di tutta la grecia, l'unico vero ostacolo per la vittoria finale. Si trovavano lì per contendere il passo ai persiani, noncuranti di essere numericamente soverchiati. Comandati dal re Leonida, erano a capo della spedizione greca. Il fatto che fossero intenti a curarsi le lunghe trecce non era un buon segnale: era infatti usanza fra gli spartiati ravviarsi la capigliatura quando si era in procinto di rischiare la vita.
Questo era l'ennesimo affronto da parte di quel popolo arrogante! Il Re dei re strinse i pugni dalla collera... a stento si trattenne dall'inviare un massiccio attacco frontale e risolvere subito la questione. Nel tendone reale regnava il silenzio: chiunque aveva imparato a temere la sua furia. Alla fine, decise di rispettare la tregua di cinque giorni che aveva offerto ai greci. Ne mancavano quattro: avevano la possibilità di arrendersi o ritirarsi, e non sarebbe stato fatto loro alcun male. Il Gran Re sapeva essere misericordioso con chi prestava obbedienza.
Quei caldissimi 4 giorni dell'agosto del 480 a.C., trascorsero rapidamente. I greci non si erano fatti da parte in alcun modo. E'probabile che qualcuno preferisse la resa, ma l'esempio di Leonida e dei suoi uomini dovette convincere anche i più titubanti a tenere la posizione. Alle Termopili erano giunti circa in 7.000: 300 spartani dell' hippeis, la guardia scelta del re, presi fra coloro che avevano dei figli per assicurare la discendenza, con a loro sostegno iloti e perieci; vi erano poi tebani (probabilmente oppositori del partito filopersiano della madrepatria), e fra gli altri, locresi, tespiesi, focesi. Questi ultimi erano stati inviati da Leonida, in numero di 1.000, a presidiare un sentiero strategico ignoto ai persiani, l'Anopaia.
La resistenza dei greci apparì un atto di stoltezza e scelleratezza impareggiabile agli occhi del Gran Re, che probabilmente andò su tutte le furie. Nonostante la rabbia, riuscì ancora a proporre una soluzione diplomatica: disse a Leonida che se si fosse arreso lo avrebbe nominato re di tutta la Grecia, dovendo rispondere solo a lui, il divino Ksha-yar-shan, in persiano "sovrano di eroi". Lo spartano rifiutò senza colpo ferire. Ormai era chiaro, era giunto il momento del sangue. Serse sollecitò Leonida a gettare le armi e consegnarle ai persiani: ottenne in tutta risposta un laconico
La Battaglia:
Lo scontro alle porte di fuoco durò 3 giorni. Leonida e i suoi 300, a capo del contingente greco, trattennero l'avanzata di Serse quanto bastò per consentire agli ateniesi di ultimare i preparativi che portarono al trionfo di Salamina. Il passo (che in un punto era largo appena 15 metri) era una posizione strategica fondamentale: da una parte alture rocciose, dall'altra il mare. In mezzo, una parete di scudi e lance, dove il numero non contava nulla. Il clima era torrido, come solo in Grecia può essere a metà agosto, per di più nei pressi di sorgenti di acqua bollente. A tratti, la brezza del mare offriva un piccolo sollievo, scuotendo le vesti, le tuniche, i capelli, i cimieri degli elmi lacedemoni. La libertà della Grecia fu costruita sul sangue e sul sudore dei suoi figli.
Da un lato si ergeva l'oplita spartano. Addestrato fin dalla tenera età alla resistenza e al combattimento, era un uomo fasciato di bronzo. Il suo equipaggiamento (la panoplia) pesava 30 chili, ed era costituito dalla corazza, l'elmo, gli schinieri, lo scudo anch'esso placcato in bronzo. Intimorivano il nemico le lunghe trecce che fuoriuscivano dagli elmi; i cimieri davano all'oplita un aspetto ancor più imponente. Lo scudo pesava ben 10 chili, ed aveva un ruolo fondamentale. Con questo infatti ogni spartano proteggeva il compagno alla sua sinistra, dalla coscia fino al collo. La falange operava come una creatura dotata di vita propria; un solo movimento non coordinato, e poteva andare in pezzi. La posizione più delicata (e più onorevole quindi) era quella all'estrema destra: il posto adatto per un Re. Serrato ed impenetrabile, dal muro della falange fuoriuscivano lance lunghe quasi 3 metri; ogni spartano era poi dotato di una spada corta di riserva, che utilizzava per il corpo a corpo.
Dall'altro lato la fanteria persiana: Medi, Cissi, e via dicendo. Dinanzi ai lacedemoni, ma all'oplita greco in generale, sembravano in uniforme da parata. Indossavano tuniche dai colori sgargianti, una cotta di maglia, turbante in testa. Gli scudi (spesso in vimini) erano piccoli, le lance molto più corte di quelle greche. Non abbandonavano mai i loro gioielli, li indossavano anche in battaglia. Ad eccezione degli Immortali, la guardia personale del Re dei re, erano anche scarsamente addestrati.
Gli spartani si trovavano nel punto più stretto della gola. Raggruppati per Enomotìe, attendevano nuovi ordini dagli ufficiali. Silenziosi e disciplinati come li aveva forgiati l'agoghè, lo sguardo fisso all'orizzonte.
Improvvisamente la terra iniziò a vibrare con forza e un grande polverone si levò verso il cielo: i barbari avevano lanciato l'attacco. Finalmente! Da lontano potevano scorgere il luccichio dei gioelli che portavano addosso, pesi inutili, e udire le loro grida di battaglia. Arrivò l'ordine di serrare i ranghi e il clangore del bronzo coprì ogni altro suono. Fianco a fianco, scudo a scudo, gli "eguali" formarono un muro di metallo, le lance in posizione verticale. Cominciarono la marcia, poi la carica; le due armate riducevano sempre di più la distanza che le separava. Infine, l'ordine più atteso: preparare le lance. I soldati delle prime tre file si passarono l'asta sotto l'ascella e la volsero in avanti. La falange era pronta per l'impatto.
Fu una strage. I persiani si accalcarono nel corridoio delle Termopili, migliaia e migliaia di persone stipate in una stretta lingua di terra. I combattenti delle prime file venivano spinti dai soldati alle loro spalle verso le lance greche, mentre i generali di Serse incoraggiavano a colpi di frusta i più titubanti a gettarsi nella mischia. In poco tempo si erano ammassate pile di cadaveri che ostacolavano le cariche dei persiani, facendo inciampare gli assalitori e facilitando il compito degli opliti.
Si dice che Serse balzò in piedi dal suo trono addirittura due volte il primo giorno di battaglia, temendo per le sorti della sua armata. Gli stessi Immortali stavano facendo una brutta fine.
I greci dominarono i primi due giorni di fuoco. Gli spartani marciavano a piedi nudi al ritmo della musica scandita dai flautisti. A volte davano le spalle al nemico simulando la ritirata, così da incoraggiare le turbe persiane all'assalto: si rivoltavano improvvisamente ricostruendo il muro di scudi in un istante, seminando morte con le lance. Ma evidentemente anche fra le forze dell'Ellade ci furono delle perdite. Spartani, tebani, tespiesi, arcadi si alternavano nelle prime linee per far rifiatare gli alleati, ma comunque gli opliti non erano abituati a combattere tanto a lungo. Gli scontri campali fra poleis erano infatti intensi ma brevi, e si concludevano quando una falange sfondava le file dell'altra. Due interi giorni a combattere con 30 chili di bronzo addosso avrebbero sfiancato anche il prode Eracle.
Serse era allo stesso tempo furibondo, incredulo, disperato. La battaglia stava dimostrando che fra le fila del suo esercito ci fossero sì molti uomini, ma pochi uomini valenti.
Come i greci furono aggirati e sconfitti |
Giunta l'aurora, i persiani avevano finito la salita e cominciavano la discesa: lì incontrarono i 1.000 focesi posti a guardia del passo da Leonida. La sorpresa fu reciproca, ma una scarica di frecce costrinse gli opliti (convinti di essere i destinatari dell'attacco) a ritirarsi su una collina per l'ultima resistenza. Idarne e i suoi non persero tempo, e di corsa proseguirono lungo l'Anopaia. L'accerchiamento era quasi compiuto.
Quando giunse la notizia Leonida era sveglio, osservava il mare schiumoso infrangersi contro le rocce.
Un altro tradimento fra i greci. Per l'ennesima volta un uomo aveva venduto la sua dignità in cambio dell'oro persiano, consegnando a Serse le chiavi delle Termopili. Presto i barbari li avrebbero circondati.
Il suo pensiero volò lontano: la regina Gorgo, l'amata Sparta, i verdi ulivi della Laconia. Se voleva tornare nella sua terra e riabbracciare sua moglie, bastava fare un passo indietro e ritirarsi; magari organizzare una nuova linea di resistenza più a sud. Rivolse lo sguardo verso il cielo stellato. Mesi prima, interrogata dai lacedemoni sull'esito della guerra, la Pizia aveva parlato invasata dal dio Apollo: Sparta sarebbe stata distrutta dai barbari, oppure avrebbe pianto la morte di un re della stirpe di Eracle. Adesso era chiaro... Voltò le spalle alle onde. Il suo sguardo si posò sopra il suo scudo... Il re ricordò cosa significava essere uno spartano. "Con questo o sopra di questo".
No, non se ne sarebbe mai andato. Per lui e per i suoi uomini, lì alle Termopili, era giunto il momento atteso da sempre: morire in battaglia, combattendo per la libertà della patria. Tutto ciò per cui avevano vissuto. Serse avrebbe pagato la discesa in Grecia con il sangue, perchè gli spartani sarebbero rimasti sul posto, accerchiati o meno. E il loro sacrificio avrebbe riempito Sparta di gloria.
Ringraziò l'osservatore delle preziose informazioni, fece svegliare i compagni e riunì il consiglio di guerra. Come aveva immaginato, non tutti gli alleati condividevano le sue idee. Congedò coloro che non erano determinati al combattimento, insieme ai lacedemoni rimasero solo tespiesi e tebani. Spuntavano le prime luci del mattino, Leonida chiamò a raccolta gli uomini che avevano accettato di condividere con lui quel magnifico giorno. Istintivamente, il re si passò le mani tra i capelli.
Molti autori hanno provato a riportare il discorso che quella mattina Leonida rivolse ai suoi uomini, ma nessuno sa con certezza cosa disse. Probabilmente parlò non da spartano, ma da greco libero; rivolgendosi non a spartani, tespiesi a tebani, bensì a uomini della Grecia. Dopotutto quel giorno non si combatteva per questa o quell'altra polis, ma per l'indipendenza della terra dei padri. Disse loro di bere molto vino, per ridurre la percezione della fatica e del dolore; li invitò a consumare l'ultimo pasto della loro vita.
Insieme, quella sera avrebbero cenato nell'Ade.
I persiani stavolta non si comportarono da sprovveduti, coordinando bene i due fronti d'attacco. I greci, stanchi e ridotti ai minimi termini, cadevano uno dopo l'altro. Lo stesso Leonida perse presto la vita: intorno al suo cadavere si formò subito una mischia furibonda, vinta inizialmente dagli alleati. Tuttavia non erano abbastanza numerosi per proteggerlo, così il cadavere del re venne conteso altre tre volte, fino a giungere nelle mani di Serse. Questi prima lo decapitò, poi fece crocifiggere il corpo. Alla fine dello scontro la testa di Leonida venne lasciata a marcire alle Termopili, in cima ad una picca.
Spartani e tespiesi indietraggiarono oltre il muro focese e si ritirarono sul colle Kolonos, per un ultimo disperato tentativo di resistenza. I tebani adottarono un'altra strategia: anzichè seguire i compagni, si prostrarono ai piedi dei barbari, pregando di essere perdonati per la loro insolenza e chiedendo di potersi unire alla causa persiana. Serse fece marchiare a fuoco e rese schiavo chi di loro non era già stato ucciso.
Sul Kolonos invece, gli uomini liberi continuavano a combattere: con la spada chi ne possedeva ancora una, con lance spezzate gli altri. Infine i greci, disarmati, si scagliarono sul nemico con le unghie e con i denti. Morirono ricoperti da una scarica di frecce, che evitò al Gran Re ulteriori perdite.
Così terminarono i tre giorni d'inferno, e l'esercito di Serse marciò verso l'Attica. C'è chi sostiene che lo scontro non fu decisivo, ma in realtà le Termopili cambiarono tutto, dimostrando che non era con la forza dei numeri che si sarebbe risolta la seconda guerra persiana. Alzarono la posta in gioco. L'arroganza del Re dei re stava per cedere contro il genio di Temistocle.
Monumento celebrativo alle Termopili |
In seguito, alle Termopili fu posta una stele di pietra, con incisi i versi del poeta Simonide:
« ὦ ξεῖν', ἀγγέλλειν Λακεδαιμονίοις ὅτι τῇδε
κείμεθα τοῖς κείνων ῥήμασι πειθόμενοι »
« O straniero, và e riferisci agli spartani
che nel rispetto delle loro leggi noi qui giacciamo »
"Venite a prenderle!" |
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