Pagine

domenica 20 luglio 2014

Gerusalemme, sacra dimora

    




                                                    Contributo di:  Federico Caruso





« Quale gioia, quando mi dissero:
       “Andremo alla casa del Signore”.
         E ora i nostri piedi si fermano
        alle tue porte Gerusalemme! » (Salmo 121 (122))


«Sono in te tutte le mie sorgenti». (Salmo 87)


Su di un testo rabbinico si può leggere: “Dio sta creando il mondo, gli angeli gli si avvicinano. Su un vassoio il primo angelo regge dieci porzioni di bellezza, ossia la bellezza dell’universo. Dio prende nove porzioni di bellezza e li assegna a Gerusalemme, mentre una sola porzione di bellezza viene destinata al resto del mondo. Il secondo angelo porta un vassoio con dieci porzioni di sapienza e di conoscenza. Dio prende nove porzioni di sapienza e le assegna a Gerusalemme, che è per eccellenza la terra della voce dei profeti, mentre una sola al resto del mondo. E così via. Finché arriva l’ultimo angelo che è cupo, vestito di scuro, anch’egli con un vassoio. Su di esso, però, ci sono dieci porzioni di dolore, di sofferenza, di pianto, di lacrime. Dio prende nove porzioni di dolore e le assegna  a Gerusalemme e una sola al resto del mondo”.
Gerusalemme, la città santa per le tre più grandi religioni monoteiste del mondo, sacra dimora del culto millenario monoteista e della verità rivelata da Dio.                                              
Gerusalemme terra di conquista, dove il sangue fluisce e si posa in quantità sulle sue pietre da secoli. Dove la carne umana viene sacrificata sull’altare del simbolico possesso. Terra di conquista da quando al pio volere di liberare la terra santa dagli “infedeli” si sostituì il peccato, il vizio capitale, l’antico morbo dell’arricchimento, al grido di: “Dio lo vuole!”                                                                                                                                                                       Gerusalemme, dove  si compie il respiro pieno dell’umanità e dove gli occhi si rivolgono al cielo più che in qualunque altro luogo.





Le tre pietre




Ebrei


Un aforisma rabbinico recita: “Il mondo, è come l’occhio: il mare è il bianco dell’occhio, la terra è l’iride, Gerusalemme è la pupilla, mentre l’immagine in essa riflessa è il Tempio”.

Gli  Ebrei la chiamano kótel, ossia la parete per eccellenza, quella che tradizionalmente è definita“Muro del pianto”. Tuttavia,  tale pietra è, in verità, il punto terminale di un itinerario di pietre che sono lì sottese. Gli archeologi hanno tentato di ricostruirle in base a criteri genealogici, riscontrando che quei massi squadrati sono in stile erodiano, perché facevano parte del tempio che Erode aveva costruito. E’ lo stesso tempio che Gesù frequenterà. Quelle pietre sono riconoscibili poiché, di solito, i massi erodiani presentano una sorta di battitura o fascia che frontalmente accompagna il rettangolo del masso. Lì, dunque, si può dire che abbia sede il tempio di Sion, il cuore dell’ebraismo: un cuore sempre amato, continuamente esaltato, perennemente celebrato e considerato come la stella polare, non solo della spiritualità, ma anche della stessa esistenza giudaica. Da qui inizia un canto che varca i secoli, partendo proprio dai Salmi biblici che parlano di quella pietra particolare che è il Tempio.
Al Salmo 102, versetto 15, si legge “Poiché ai tuoi servi sono care le sue pietre”. Il testo ebraico dice Ki ratsû ‘abdeka ’et-’abaneha. L’elemento fondamentale risiede in quel ratsû, cioè “sono care” ai tuoi servi le pietre di Sion, le sue pietre. Ratsû  in ebraico deriva dal verbo ratsah, che indica un piacere quasi fisico, una comunione passionale. Pertanto quella pietra che è fredda, va baciata come se fosse la tua sposa. Si tratta di un verbo che indica piacere quasi erotico, un verbo che contiene un nesso istintivo, primordiale.
Gerusalemme è stata anche capitale del Regno di Giuda e Israele dal 1030 a.C. circa. L'ultimo dei suoi sovrani fu il re Salomone, attorno al 933 a.C. Il regno alla morte di Salomone si scisse. Accadde che le tribù del nord contestarono l'autorità di Roboamo, successore di Salomone, e si organizzarono nel Regno d'Israele, retto da Geroboamo, mentre quelle del sud costituirono il Regno di Giuda. Gerusalemme dal 933 a.C. è il centro del Regno di Giuda e lo rimane fino al 597 a.C.



Cristiani

Cristo alla Samaritana: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né in Gerusalemme adorerete il Padre… Ma viene l’ora in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Giovanni, 4, 21 - 23)
In occasione della sua ultima Pasqua Gesù si recò nella città santa di Gerusalemme, ove fu accolto come Messia dalla folla festante che lo acclamò gridando Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore e agitando rami d'ulivo e di palma. E’ il 33 d.C. ed il Cristo è un ebreo dotto che vive nella Palestina romana. 
Pochi giorni dopo qui, tra le  mura di Gerusalemme, i dodici insieme al Cristo si riunirono a cena per celebrare la Pasqua ebraica, una festività che ricorda l’esodo del popolo israelita dalle terre d’Egitto. 
Durante quest’ultima cena nasce il rito dell’Eucarestia.                                                                        
Improvvisamente il Cristo prese del pane e, dopo aver pronunziato la preghiera di benedizione, lo spezzò e dandolo ai discepoli disse: "Prendete e mangiate. Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me". Poco dopo prese un calice colmo di vino e dopo averlo benedetto allo stesso modo disse: "Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell'alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati”; era giovedì sera. Fu in questo luogo, in seguito a questo convivio, che si compì in pochi giorni il destino di quello che per i Cristiani è  il figlio di Dio: dalla cattura avvenuta all’orto del Getsemani, luogo in cui Cristo si ritirò in preghiera subito dopo l’ultima cena (un piccolo uliveto poco fuori la città vecchia situato sul Monte degli Ulivi), passando per il processo avvenuto prima davanti al Sinedrio (durante quella stessa notte, forse nel tempio),  poi  innanzi a Pilato la mattina seguente nel cortile della Fortezza Antonia, fino al calvario per le vie della città che dalla dimora di Pilato lo condusse al Golgota, la collina dove sorge oggi la Basilica del Santo Sepolcro.  
Qui la passione di Cristo si concluse: e qui, dove finì la sua vita carnale, avvenne  la sua resurrezione.                                
    Il luogo è il sepolcro nel quale fu deposto, situato allora poco fuori le mura di Gerusalemme vicino al Golgota-Calvario, il piccolo promontorio roccioso dove Gesù fu crocifisso
La tradizione cristiana ha conservato la memoria geografica del luogo, nel quale sorge attualmente la Basilica del Sepolcro.                                                                                                                                                                                        
  I vangeli non indicano esplicitamente la data della risurrezione: narrano che la scoperta avvenne all'alba del giorno dopo il sabato, cioè tre giorni dopo la sua morte e deposizione nel sepolcro.                                                                
    I "tre giorni" sono poco più che una giornata e mezza, dal tramonto del venerdì all'alba della domenica.                   Per il Cristianesimo l'evento è  principio e fondamento della fede, ricordato annualmente nella Pasqua e settimanalmente nella domenica.



Mussulmani


La Qubbet as-Sakhra’, cioè la “Cupola della Roccia”, comunemente detta Moschea di Omar è il luogo sacro per i Mussulmani a Gerusalemme. La definizione di “moschea” in realtà è erronea, e non fu neppure Omar a definirla tale: il motivo sta nel fatto che essa è edificata a guisa di martyrium, una struttura finalizzata alla conservazione e alla venerazione di sante reliquie e non come un luogo di preghiera. Fu costruita fra il 687 e il 691, nell'era degli Omayyadi, dal 9º CaliffoʿAbd al-Malik ibn Marwān. È  chiamata Moschea di Omar dal momento che, all'epoca del 2º califfo, ʿUmar ibn al-Khaṭṭāb, fu costruito un oratorio in legno (successivamente andato a fuoco) nel punto  in cui egli stesso aveva pregato al momento della sua visita alla Città Santa dopo la conquista da parte dei mussulmani nel 637. Secondo alcuni sarebbe l'edificio islamico più antico del mondo ancora oggi esistente, la sua cupola d'oro si staglia su tutte le altre costruzioni di Gerusalemme.                                                            
La roccia al centro del santuario è riconosciuta dai musulmani come il luogo in cui Maometto ascese al cielo nel suo miracoloso viaggio notturno, narrato dal Corano: l' isrāʾ (il viaggio che lo condusse da La Mecca a Gerusalemme in sella al mistico destriero Buraq)  e il successivo miʿrāj, (la vera e propria ascesa al cielo da vivo che lo portò a vedere Dio con gli occhi di un umano).  Su questa stessa  roccia Abramo (Ibrāhīm) sarebbe stato sul punto di sacrificare suo figlio Ismaele/ Isacco, prima che la sua mano fosse fermata da Dio.



Gerusalemme è il luogo in cui più di ogni altro al Mondo la religione si tramutò in terre o beni materiali            e Dio in re o sultano.                                                                                                                                                                                      
Una corsa al diritto di possedere un simbolo, al sentirsi orgogliosi di possederlo , all’esser certi di aver fatto la volontà di Dio.
Chi ha diritto? Chi  più degli altri?
Tutti hanno diritto! Nessuno ha diritto!


Shalom plein

Salaam alaikum
Pacem nobiscum



venerdì 7 febbraio 2014

Ecco dove siamo! La Terra vista da Marte







Un puntino luminoso nello sterminato orizzonte di una sera marziana: la Terra come non si era mai vista.








Sono passati appena 80 minuti dal tramonto del 529esimo giorno di lavoro sul Pianeta Rosso di Curiosity, il rover della NASA.
A ben 160 milioni di chilometri di distanza da Marte, la Terra affiora da un cielo semioscuro, proprio come una normale "stella della sera".
In realtà quel chiarore risulta composto dalla somma della luminosità terrestre con quella lunare e, come emerge dalla descrizione sul sito della NASA, sarebbe facilmente visibile da un osservatore umano dotato di vista media, stando in piedi sul suolo di Marte.

       Chi non ha ancora trovato il suo posto nel mondo, ora saprà con certezza qual'è il suo posto nell'universo: un puntino luminoso nello sterminato orizzonte di una sera marziana.


Le immagini sul sito della NASA: http://www.jpl.nasa.gov/spaceimages/details.php?id=PIA17936




mercoledì 17 luglio 2013

Un corsaro al "Rock in Roma": il concerto di Mark Knopfler



Il look da rockstar lo ha abbandonato da tempo. Non c'è più quella fascia a raccogliere i capelli, ormai bianchi e diradati; il volto è segnato da nuove rughe. Il tempo passa per tutti, ma il vero talento dura una vita intera: sul palco dell'Ippodromo delle Capannelle, il 13 luglio 2013, Mark Knopfler lo ha dimostrato ancora una volta.

Mark Knopfler e la sua Fender Stratocaster.
I suoni dell'artista britannico segnano una parentesi folk al "Rock in Roma", cui oltre 10.000 persone hanno voluto assistere dal vivo; i volti del pubblico sono in gran parte quelli dei ragazzi degli anni '80, innamorati dei Dire straits e di tutto quello che hanno significato per la storia del rock. Il caloroso abbraccio romano accoglie l'entrata in scena sulle note di "What it is": la mano di Mark scivola sulle corde della Fender e regala un assolo che ricorda molto i vecchi tempi, sollecitando gli animi dei più nostalgici.
Chi crede che a 64 anni un musicista sia in fase calante è subito smentito: in quasi due ore di concerto le sue performance sono state di altissimo livello. Sicuramente avrà imparato a gestirsi, ma sta di fatto che non si intravedono segni di cedimento, e la rapidità di esecuzione è notevole, alle volte sbalorditiva. 
Il concerto scorre fra sonorità nordiche e musiche evocative, intervallate da momenti blues e atmosfere country. Knopfler punta tutto sul repertorio solista, che al riguardo fornisce pezzi di alto livello. Tuttavia i momenti di massima partecipazione del pubblico si hanno con "Romeo and Juliet" e "So Far Away", cantate da giovani e meno giovani, nonchè durante la storica "Telegraph Road": tutti pezzi dei Dire Straits, adattati e innovati qua e là per renderne sempre vivo il significato. Questo dimostra che gran parte dei presenti si aspettava (o quanto meno desiderava) ascoltare i grandi successi del passato, ed è questa la ragione per cui in molti hanno lasciato stupiti e sconcertati l'Ippodromo al termine della serata: grandi assenti, su tutti, "Brothers in Arms" ed in particolare "Sultans of Swing". Ma chi conosce bene il chitarrista nato a Glasgow sa che questo non significa rinnegare il passato o dimenticare le proprie radici: è insito nel percorso di maturazione dell'uomo e del musicista lasciarsi alle spalle le vivaci note della gioventù, magari per dedicarsi ad uno stile più pacato ed introspettivo.
Esemplare al riguardo l'esecuzione di "Father and Son" da parte della band, che risale ai primi tempi del Knopfler solista, ormai vent'anni or sono: gli strumenti richiamano cornamuse e Highlands scozzesi attraverso sonorità struggenti. Ma ecco che dal vecchio nasce il nuovo, e sul pezzo d'orchestra si innesta la più recente "Hill Farmer's Blues": senza una cesura, i due brani scivolano via insieme. Il passato non viene rinnegato, anzi rappresenta un imprescindibile punto di partenza. E'un appoggio sicuro, l'artista se ne avvale per sperimentare nuovi percorsi; costituisce il porto da cui salpare verso destinazioni ignote, alla ricerca di se stessi e della propria dimensione musicale.

Ed è questo il significato di "Privateering", il brano che ha dato il nome all'ultimo album: Knopfler chiama a raccolta i suoi uomini ed i suoi fans per questo ennesimo arrembaggio.
Levata l'ancora, il veliero solca il mare aperto.
Stona con questi proclami però, l'immagine dell'album. Nella luce rossastra del tramonto un furgone vecchio e malandato, senza una ruota, è fermo in una radura desolata. Non c'è anima viva, se non un cane randagio: come a dire che, alla fine del viaggio, l'artista è destinato a ritrovarsi solo con se stesso...

giovedì 9 maggio 2013

Le porte d'Inferno: La battaglia delle Termopili





 Antefatto:  

Serse aveva stabilito l'accampamento della sua immensa armata nella regione della Malide, nei pressi di una stretta gola, passaggio obbligato per la discesa in Grecia e la sottomissione dei suoi rissosi abitanti. 
Numerose sorgenti di acqua calda erano situate intorno al passo, noto per questo col nome di "Termopili", porte calde. Ma presto quelle porte sarebbero state infuocate da una battaglia dura e sanguinosa: qualcosa che il Gran Re non avrebbe mai potuto immaginare.

L'impero di Serse contro la piccola Grecia
Serse I di Persia, figlio di Dario, si fregiava del titolo di "Re dei re": il suo impero era il più grande mai visto fino ad allora. Giunse in Grecia per realizzare il sogno che il padre aveva visto infrangersi a Maratona, "fare in modo che la terra di Persia confinasse solo col cielo che appartiene a Zeus". Per far ciò contava di abbattere il nemico con la forza dei numeri, in terra e in mare. Un'abile diplomazia aveva fatto il resto; c'erano infatti più greci fra le fila del suo esercito che contro. Reietti, esuli, traditori, corrotti o timorosi.
Ma non tutti avevano reagito allo stesso modo. Già ai tempi di Dario, alla richiesta degli emissari persiani di cedere terra e acqua, gli ateniesi risposero scaraventandoli in una fossa e gli spartani cacciandoli in un pozzo: terra ed acqua potevano prendersele da lì.
Così nel 480 a.C Serse giunse in Tessaglia senza problemi, occupando le regioni a nord della Grecia senza incontrare opposizione. I primi uomini ad avere il coraggio di contrastarlo lo attendevano nella gola delle Termopili.

Il Gran Re era sbigottito. Di tutte le strane usanze dei popoli riuniti nel suo impero, questa di cui aveva appena udito era di certo la più bizzarra. Seduto sul suo sfarzoso trono all'interno del tendone reale, enorme in un accampamento smisurato, aveva assistito al resoconto dell'osservatore a cavallo, inviato a scrutare quanti fossero i nemici scesi in campo per affrontarlo nella gola delle acque bollenti. La vedetta aveva riferito che le forze greche riunite nel passo erano esigue. Molti si trovavano al di là di un rozzo muro, probabilmente costruito dai difensori; ma ciò che l'aveva colpito era ben altro. Allo scoperto, di prima mattina, un gruppo di uomini praticava esercizi ginnici di vario tipo, mentre altri compagni erano impegnati a ravviarsi le folte chiome. Poichè nessuno aveva compreso tali comportamenti, Serse chiamò a sè Demarato: un tempo re di Sparta, mandato in esilio dai suoi concittadini. La sua spiegazione, per quanto possibile, lo irritò ancor di più. Quegli uomini di cui si parlava erano spartani, pronti a competere più di ogni altro popolo per contrastare la sua volontà: i più forti soldati di tutta la grecia, l'unico vero ostacolo per la vittoria finale. Si trovavano lì per contendere il passo ai persiani, noncuranti di essere numericamente soverchiati. Comandati dal re Leonida, erano a capo della spedizione greca. Il fatto che fossero intenti a curarsi le lunghe trecce non era un buon segnale: era infatti usanza fra gli spartiati ravviarsi la capigliatura quando si era in procinto di rischiare la vita. 
Questo era l'ennesimo affronto da parte di quel popolo arrogante! Il Re dei re strinse i pugni dalla collera... a stento si trattenne dall'inviare un massiccio attacco frontale e risolvere subito la questione. Nel tendone reale regnava il silenzio: chiunque aveva imparato a temere la sua furia. Alla fine, decise di rispettare la tregua di cinque giorni che aveva offerto ai greci. Ne mancavano quattro: avevano la possibilità di arrendersi o ritirarsi, e non sarebbe stato fatto loro alcun male. Il Gran Re sapeva essere misericordioso con chi prestava obbedienza.

Quei caldissimi 4 giorni dell'agosto del 480 a.C., trascorsero rapidamente. I greci non si erano fatti da parte in alcun modo. E'probabile che qualcuno preferisse la resa, ma l'esempio di Leonida e dei suoi uomini dovette convincere anche i più titubanti a tenere la posizione. Alle Termopili erano giunti circa in 7.000: 300 spartani dell' hippeis, la guardia scelta del re, presi fra coloro che avevano dei figli per assicurare la discendenza, con a loro sostegno iloti e perieci; vi erano poi tebani (probabilmente oppositori del partito filopersiano della madrepatria), e fra gli altri, locresi, tespiesi, focesi. Questi ultimi erano stati inviati da Leonida, in numero di 1.000, a presidiare un sentiero strategico ignoto ai persiani, l'Anopaia.
La resistenza dei greci apparì un atto di stoltezza e scelleratezza impareggiabile agli occhi del Gran Re, che probabilmente andò su tutte le furie. Nonostante la rabbia, riuscì ancora a proporre una soluzione diplomatica: disse a Leonida che se si fosse arreso lo avrebbe nominato re di tutta la Grecia, dovendo rispondere solo a lui, il divino Ksha-yar-shan, in persiano "sovrano di eroi". Lo spartano rifiutò senza colpo ferire. Ormai era chiaro, era giunto il momento del sangue. Serse sollecitò Leonida a gettare le armi e consegnarle ai persiani: ottenne in tutta risposta un laconico «Μολὼν λαβέ». Venite a prenderle!

La Battaglia:


Lo scontro alle porte di fuoco durò 3 giorni. Leonida e i suoi 300, a capo del contingente greco, trattennero l'avanzata di Serse quanto bastò per consentire agli ateniesi di ultimare i preparativi che portarono al trionfo di Salamina. Il passo (che in un punto era largo appena 15 metri) era una posizione strategica fondamentale: da una parte alture rocciose, dall'altra il mare. In mezzo, una parete di scudi e lance, dove il numero non contava nulla. Il clima era torrido, come solo in Grecia può essere a metà agosto, per di più nei pressi di sorgenti di acqua bollente. A tratti, la brezza del mare offriva un piccolo sollievo, scuotendo le vesti, le tuniche, i capelli, i cimieri degli elmi lacedemoni. La libertà della Grecia fu costruita sul sangue e sul sudore dei suoi figli.
Da un lato si ergeva l'oplita spartano. Addestrato fin dalla tenera età alla resistenza e al combattimento, era un uomo fasciato di bronzo. Il suo equipaggiamento (la panoplia) pesava 30 chili, ed era costituito dalla corazza, l'elmo, gli schinieri, lo scudo anch'esso placcato in bronzo. Intimorivano il nemico le lunghe trecce che fuoriuscivano dagli elmi; i cimieri davano all'oplita un aspetto ancor più imponente. Lo scudo pesava ben 10 chili, ed aveva un ruolo fondamentale. Con questo infatti ogni spartano proteggeva il compagno alla sua sinistra, dalla coscia fino al collo. La falange operava come una creatura dotata di vita propria; un solo movimento non coordinato, e poteva andare in pezzi. La posizione più delicata (e più onorevole quindi) era quella all'estrema destra: il posto adatto per un Re. Serrato ed impenetrabile, dal muro della falange fuoriuscivano lance lunghe quasi 3 metri; ogni spartano era poi dotato di una spada corta di riserva, che utilizzava per il corpo a corpo.
Dall'altro lato la fanteria persiana: Medi, Cissi, e via dicendo. Dinanzi ai lacedemoni, ma all'oplita greco in generale, sembravano in uniforme da parata. Indossavano tuniche dai colori sgargianti, una cotta di maglia, turbante in testa. Gli scudi (spesso in vimini) erano piccoli, le lance molto più corte di quelle greche. Non abbandonavano mai i loro gioielli, li indossavano anche in battaglia. Ad eccezione degli Immortali, la guardia personale del Re dei re, erano anche scarsamente addestrati. 


Gli spartani si trovavano nel punto più stretto della gola. Raggruppati per Enomotìe,  attendevano nuovi ordini dagli ufficiali. Silenziosi e disciplinati come li aveva forgiati l'agoghè, lo sguardo fisso all'orizzonte.
Improvvisamente la terra iniziò a vibrare con forza e un grande polverone si levò verso il cielo: i barbari avevano lanciato l'attacco. Finalmente! Da lontano potevano scorgere il luccichio dei gioelli che portavano addosso, pesi inutili, e udire le loro grida di battaglia. Arrivò l'ordine di serrare i ranghi e il clangore del bronzo coprì ogni altro suono. Fianco a fianco, scudo a scudo, gli "eguali" formarono un muro di metallo, le lance in posizione verticale. Cominciarono la marcia, poi la carica; le due armate riducevano sempre di più la distanza che le separava. Infine, l'ordine più atteso: preparare le lance. I soldati delle prime tre file si passarono l'asta sotto l'ascella e la volsero in avanti. La falange era pronta per l'impatto.


Fu una strage. I persiani si accalcarono nel corridoio delle Termopili, migliaia e migliaia di persone stipate in una stretta lingua di terra. I combattenti delle prime file venivano spinti dai soldati alle loro spalle verso le lance greche, mentre i generali di Serse incoraggiavano a colpi di frusta i più titubanti a gettarsi nella mischia. In poco tempo si erano ammassate pile di cadaveri che ostacolavano le cariche dei persiani, facendo inciampare gli assalitori e facilitando il compito degli opliti.
Si dice che Serse balzò in piedi dal suo trono addirittura due volte il primo giorno di battaglia, temendo per le sorti della sua armata. Gli stessi Immortali stavano facendo una brutta fine. 
I greci dominarono i primi due giorni di fuoco. Gli spartani marciavano a piedi nudi al ritmo della musica scandita dai flautisti. A volte davano le spalle al nemico simulando la ritirata, così da incoraggiare le turbe persiane all'assalto: si rivoltavano improvvisamente ricostruendo il muro di scudi in un istante, seminando morte con le lance. Ma evidentemente anche fra le forze dell'Ellade ci furono delle perdite. Spartani, tebani, tespiesi, arcadi si alternavano nelle prime linee per far rifiatare gli alleati, ma comunque gli opliti non erano abituati a combattere tanto a lungo. Gli scontri campali fra poleis erano infatti intensi ma brevi, e si concludevano quando una falange sfondava le file dell'altra. Due interi giorni a combattere con 30 chili di bronzo addosso avrebbero sfiancato anche il prode Eracle.

Serse era allo stesso tempo furibondo, incredulo, disperato. La battaglia stava dimostrando che fra le fila del suo esercito ci fossero sì molti uomini, ma pochi uomini valenti. 
Come i greci furono aggirati e sconfitti
Alla fine del secondo giorno arrivò l'insperato colpo di fortuna. Un tale Efialte di Trachis, cittadina del luogo, forse spinto dal desiderio di quelle ricompense che il Gran Re dispensava generosamente ai suoi fedeli servitori (così dicevano), si recò nell'accampamento persiano e rivelò importanti informazioni. Il valico  delle Termopili poteva essere aggirato, sfruttando un sentiero chiamato Anopaia, nei pressi del fiume Asopo. Il sovrano, pieno di gioia, chiamò subito a sè Idarne, comandante degli Immortali. Efialte avrebbe guidato lui ed i suoi uomini attraverso il sentiero la sera stessa, dopo il crepuscolo.  Fu così che 10.000 uomini si inoltrarono su impervi sentieri montani.
 Giunta l'aurora, i persiani avevano finito la salita e cominciavano la discesa: lì incontrarono i 1.000 focesi posti a guardia del passo da Leonida. La sorpresa fu reciproca, ma una scarica di frecce costrinse gli opliti (convinti di essere i destinatari dell'attacco) a ritirarsi su una collina per l'ultima resistenza. Idarne e i suoi non persero tempo, e di corsa proseguirono lungo l'Anopaia. L'accerchiamento era quasi compiuto.

Quando giunse la notizia Leonida era sveglio, osservava il mare schiumoso infrangersi contro le rocce. 
Un altro tradimento fra i greci. Per l'ennesima volta un uomo aveva venduto la sua dignità in cambio dell'oro persiano, consegnando a Serse le chiavi delle Termopili. Presto i barbari li avrebbero circondati.
Il suo pensiero volò lontano: la regina Gorgo, l'amata Sparta, i verdi ulivi della Laconia. Se voleva tornare nella sua terra e riabbracciare sua moglie, bastava fare un passo indietro e ritirarsi; magari organizzare una nuova linea di resistenza più a sud. Rivolse lo sguardo verso il cielo stellato. Mesi prima, interrogata dai lacedemoni sull'esito della guerra, la Pizia aveva parlato invasata dal dio Apollo: Sparta sarebbe stata distrutta dai barbari, oppure avrebbe pianto la morte di un re della stirpe di Eracle. Adesso era chiaro... Voltò le spalle alle onde. Il suo sguardo si posò sopra il suo scudo... Il re ricordò cosa significava essere uno spartano. "Con questo o sopra di questo".
No, non se ne sarebbe mai andato. Per lui e per i suoi uomini, lì alle Termopili, era giunto il momento atteso da sempre: morire in battaglia, combattendo per la libertà della patria. Tutto ciò per cui avevano vissuto. Serse avrebbe pagato la discesa in Grecia con il sangue, perchè gli spartani sarebbero rimasti sul posto, accerchiati o meno. E il loro sacrificio avrebbe riempito Sparta di gloria.
Ringraziò l'osservatore delle preziose informazioni, fece svegliare i compagni e riunì il consiglio di guerra. Come aveva immaginato, non tutti gli alleati condividevano le sue idee. Congedò coloro che non erano determinati al combattimento, insieme ai lacedemoni rimasero solo tespiesi e tebani. Spuntavano le prime luci del mattino, Leonida chiamò a raccolta gli uomini che avevano accettato di condividere con lui quel magnifico giorno. Istintivamente, il re si passò le mani tra i capelli.

Molti autori hanno provato a riportare il discorso che quella mattina Leonida rivolse ai suoi uomini, ma nessuno sa con certezza cosa disse. Probabilmente parlò non da spartano, ma da greco libero; rivolgendosi non a spartani, tespiesi a tebani, bensì a uomini della Grecia. Dopotutto quel giorno non si combatteva per questa o quell'altra polis, ma per l'indipendenza della terra dei padri. Disse loro di bere molto vino, per ridurre la percezione della fatica e del dolore; li invitò a consumare l'ultimo pasto della loro vita. 
Insieme, quella sera avrebbero cenato nell'Ade.

I persiani stavolta non si comportarono da sprovveduti, coordinando bene i due fronti d'attacco. I greci, stanchi e ridotti ai minimi termini, cadevano uno dopo l'altro. Lo stesso Leonida perse presto la vita: intorno al suo cadavere si formò subito una mischia furibonda, vinta inizialmente dagli alleati. Tuttavia non erano abbastanza numerosi per proteggerlo, così il cadavere del re venne conteso altre tre volte, fino a giungere nelle mani di Serse. Questi prima lo decapitò, poi fece crocifiggere il corpo. Alla fine dello scontro la testa di Leonida venne lasciata a marcire alle Termopili, in cima ad una picca.
Spartani e tespiesi indietraggiarono oltre il muro focese e si ritirarono sul colle Kolonos, per un ultimo disperato tentativo di resistenza. I tebani adottarono un'altra strategia: anzichè seguire i compagni, si prostrarono ai piedi dei barbari, pregando di essere perdonati per la loro insolenza e chiedendo di potersi unire alla causa persiana. Serse fece marchiare a fuoco e rese schiavo chi di loro non era già stato ucciso.
Sul Kolonos invece, gli uomini liberi continuavano a combattere: con la spada chi ne possedeva ancora una, con lance spezzate gli altri. Infine i greci, disarmati, si scagliarono sul nemico con le unghie e con i denti. Morirono ricoperti da una scarica di frecce, che evitò al Gran Re ulteriori perdite.

Così terminarono i tre giorni d'inferno, e l'esercito di Serse marciò verso l'Attica. C'è chi sostiene che lo scontro non fu decisivo, ma in realtà le Termopili cambiarono tutto, dimostrando che non era con la forza dei numeri che si sarebbe risolta la seconda guerra persiana. Alzarono la posta in gioco. L'arroganza del Re dei re stava per cedere contro il genio di Temistocle.

Monumento celebrativo alle Termopili


In seguito, alle Termopili fu posta una stele di pietra, con incisi i versi del poeta Simonide:

« ὦ ξεῖν', ἀγγέλλειν Λακεδαιμονίοις ὅτι τῇδε
κείμεθα τοῖς κείνων ῥήμασι πειθόμενοι »

« O straniero, và e riferisci agli spartani
che nel rispetto delle loro leggi noi qui giacciamo »


"Venite a prenderle!"

venerdì 26 aprile 2013

La prima "codificazione". La Stele di Hammurabi

Bassorilievo sulla Stele: Hammurabi riceve le leggi dal dio del Sole


Nel 1902 a Susa (Iran) l'importantissimo ritrovamento: dopo secoli e secoli, sepolta dalla sabbia e dal tempo, tornava alla luce la Stele di Hammurabi.
Un blocco di basalto nero alto più di due metri, inciso da una miriade di caratteri cuneiformi disposti su 49 colonne e ben 3.600 righe, raccoglie 282 leggi: le più antiche mai messe per iscritto. Sono le norme che reggevano una civiltà fiorente ed evoluta, Babilonia. Quando vennero incise, Hammurabi regnava da più di un decennio su un vasto territorio, che si estendeva dal Golfo Persico fin quasi le coste del Mar Mediterraneo, attraverso tutta la Mesopotamia: correva l'anno 1780 a.C.


Sulla sommità della Stele siede sul trono Shamash, dio del Sole e della giustizia. Porge ad un uomo i segni del potere, il bastone e l'anello: esile al suo cospetto, il re Hammurabi solleva una mano in segno di saluto, e si appresta a ricevere le leggi del suo popolo. Al di sotto, caratteri cuneiformi incisi sul basalto ci tramandano attraverso i millenni gesta ed onorificenze del re babilonese (narrate in prima persona), nonchè il diritto su cui poggiavano le genti della Mesopotamia.

Per molto tempo storici e critici sono stati d'accordo nel ritenere che quella della Stele fosse una raccolta di leggi in senso proprio, ossia una collezione di norme generali ed astratte all'interno di una forma sia pure primitiva di codificazione. Gli studiosi, oggi, hanno qualche dubbio al riguardo.
In epoca così remota, per i babilonesi come per gli altri popoli, il diritto era tramandato oralmente di generazione in generazione: insieme alla religione ed alle consuetudini formava l'identità culturale di una popolazione. Pertanto quella di Hammurabi più che un'opera di codificazione (intesa come raccolta della totalità delle leggi vigenti), fu sicuramente un intelligente atto di propaganda politica e di celebrazione dei suoi grandi successi, non solo militari. Difficilmente infatti le norme incise sulla Stele potevano essere applicate in via generale: sono più che altro delle soluzioni casistiche, elaborate in circostanze concrete. Come risulta da documenti della stessa età, sono sentenze dello stesso re, raccolte tutte insieme, come esempio di "buon governo" per i suoi successori. Un diritto a base casistica dunque: tipico delle popolazioni antiche, esattamente come fu anche per Roma. A differenza però dei codici primitivi, fra cui le XII Tavole (incise nel 451 - 450 a.C., oltre 1300 anni dopo la Stele!), quello di Hammurabi non è un codice processuale. Non contiene cioè norme sullo svolgimento del processo, ma solo norme civili e penali. Altro elemento caratteristico è l'assenza assoluta di precetti di diretta derivazione divina - religiosa. Poi sicuramente l'aspetto maggiormente noto a tutti, ossia l'ampio ricorso alla legge del taglione.

Le 282 leggi fanno luce sul mondo di una civiltà splendente, forte, sicuramente evoluta rispetto agli standard dell'epoca. Parliamo di quasi 4.000 anni fa, eppure la tecnica giuridica con cui quelle norme sono redatte è sicuramente affinata. La struttura è sempre la stessa: ciascun articolo si apre con la protasi (il fatto) e si chiude con l'apodosi (la sanzione).
 Un esempio: 




218.: "Se un medico cura alcuno di una grave ferita colla lancetta di bronzo [bisturi] e lo uccide, o gli apre una piaga colla lancetta di bronzo e l'occhio è perduto, gli si dovranno mozzare le mani."

Un articolo sulla responsabilità del medico, peraltro argomento ancora di stretta attualità.
Il pensiero legislativo è espresso con rigore e si ripete costante: proposizione ipotetica, proposizione imperativa.
Delitto e castigo.
Ancora:

 1.: "Se un uomo accusa un altro uomo di omicidio senza fornirne le prove, l'accusatore sarà condannato a morte." 

Come accade anche oggi, per poter ottenere una sentenza di condanna dell'imputato occorre portare dinanzi al giudice le prove necessarie. Lo Stato si preoccupa di punire direttamente il colpevole per evitare vendette private, ma è certo che qui la sanzione sia particolarmente dura: alla faccia dell'onere della prova!


Grande valore storico - culturale, reperto importante per aprire una finestra su un'epoca remota ed affascinante, ma non solo. La Stele di Hammurabi può anche essere foriera di riflessioni utili per il presente. Mi riferisco all'articolo numero 5, riguardante le prevaricazioni di un giudice. Quello della responsabilità civile del magistrato è un annoso problema che affligge il nostro ordinamento: l'attuale disciplina risalente al 1988 è sempre stata criticata, tanto che attualmente si sta discutendo in Parlamento perchè venga riformata. E'una disciplina compromissoria, sicuramente troppo attenta a bilanciare le esigenze contrapposte della preservazione della tranquillità del giudice e dell'assoggettamento dei magistrati ad un certo grado di responsabilità per le azioni che compiono nel loro operato: nei tre casi in cui il giudice agisca con dolo, colpa grave, ovvero qualora la sua attività comporti un prolungato diniego di giustizia, il cittadino avrà diritto all'azione risarcitoria aquiliana. Ma non nei confronti del giudice, bensì dello Stato, che in una prima fase dovrà risarcire direttamente il danneggiato, naturalmente in caso di condanna. In una successiva ed eventuale seconda fase lo Stato potrà rivalersi nei confronti del giudice, ma non per l'intero, bensì solamente per una cifra non superiore ad un terzo dello stipendio annuale netto dello stesso (salvo il caso del dolo, in cui non vi sono limiti al regresso). Non un eccellente dissuasivo, tanto che si parla di pena pecuniaria piuttosto che di responsabilità civile del magistrato. Ma cosa c'entra con tutto questo il diritto babilonese?
C'entra eccome, in quanto Hammurabi 4.000 anni fa poteva vantare un deterrente sicuramente migliore di quello di cui disponiamo oggi:  
5.: "Se un giudice conduce un processo ed emette una decisione e redige per iscritto la sentenza, se più tardi il suo processo si dimostra errato e quel giudice nel processo che egli ha condotto è convinto di essere ragione dell'errore, egli allora dovrà pagare dodici volte la pena che in quel processo era stabilita, e si dovrà pubblicamente cacciarlo dal suo seggio di giudice, nè dovrà egli tornarvi per sedere di nuovo come giudice in un processo."

Il diritto della Stele, quindi, ci offre alcuni spunti su cui concentrarsi per una riforma coerente ed efficace sulla responsabilità civile del magistrato. Innanzi tutto, la rimozione dall'incarico per un giudice incompetente o corrotto. In secondo luogo un processo diretto, in quanto oggi come oggi il cittadino non può citare direttamente il giudice, ma muovere causa solamente allo Stato. Terzo, la condanna: commisurata non alla retribuzione, bensì alla pena inflitta (e quindi al danno cagionato) nel processo viziato.